Patologia letale contratta dall’addetto alla fotocopiatrice: ne risponde il datore di lavoro

domenica 18 febbraio 2018 · Posted in , ,

 
Un impiegato regionale, sposato e padre di due figli, contraeva una gravissima malattia, chepatologia era insorta a causa dell’esposizione del proprio congiunto alle sostanze chimiche con cui egli era venuto a contatto nello svolgimento dei compiti di addetto al funzionamento e alla manutenzione della fotocopiatrice. Per quel che concerne la domanda relativa al ristoro dei pregiudizi di natura non patrimoniale sofferti iure proprio, il giudice di primo grado la accoglieva, condannando l’ente convenuto a versare una consistente somma a ciascuno degli attori. Il soccombente proponeva appello, che però non riusciva nemmeno a superare lo scoglio dell’ammissibilità, in quanto difettava una ragionevole probabilità che l’impugnazione fosse accolta. La vertenza è infine approdata dinanzi al Supremo Collegio che, con ordinanza n. 2366 del 31 gennaio 2018, ha respinto in toto le censure formulate dall’amministrazione avverso la declaratoria di inammissibilità.
lo portava alla morte. Gli appartenenti al nucleo familiare della persona scomparsa agivano nei confronti dell’amministrazione per il risarcimento dei danni derivanti dall’evento luttuoso, asserendo che la
In sede di legittimità si discute essenzialmente di profili procedurali, oltre che del termine di prescrizione della pretesa vantata dai prossimi congiunti, mentre non viene in rilievo la questione della sussistenza di un legame eziologico tra la malattia e la specifica attività lavorativa cui il defunto era adibito. Quest’ultimo profilo, nondimeno, costituisce un passaggio fondamentale nell’ambito delle controversie dove si tratta di stabilire se una malattia tumorale sia ascrivibile a causa di servizio. A titolo esemplificativo, si può segnalare la causa promossa dalla moglie di un lavoratore, deceduto per un linfoma non-Hodgkin, il quale nel corso della sua attività era stato esposto al creosoto, sostanza derivata dal petrolio che viene adoperata come preservante del legno delle traversine ferroviarie, al fine di renderlo impermeabile rispetto agli agenti atmosferici. Orbene, in tale circostanza, la corte di merito aveva escluso, in base allo stato attuale delle conoscenze scientifiche quale emergeva dalle relazioni dei consulenti tecnici, un nesso causale tra l'attività lavorativa di casellante ferroviario svolta dal marito dell’attrice e l'insorgenza della patologia che l’aveva colpito. Il verdetto ha trovato l’avallo dalla sezione lavoro della Cassazione, la quale ha sottolineato come la rilevanza dell'origine professionale della malattia fosse rimasta allo stato di mera eventualità (Cass. civ., sez. lav., 13 giugno 2012, n. 9650). Con specifico riferimento alle fotocopiatrici e alle stampanti laser, da tempo sono stati identificati alcuni fattori di rischio, legati per un verso al rilascio dai materiali impiegati per il funzionamento di tali dispositivi e, per altro verso, alla particolare tecnologia utilizzata. Al riguardo, si può ricordare che nelle "Linee-guida per la tutela e la promozione della salute negli ambienti confinati", elaborate nel 2001 da una commissione istituita preso il Ministero della Salute, si paventava il pericolo che l'impiego di strumenti di lavoro quali stampanti, plotter e fotocopiatrici fosse suscettibile di determinare un’emissione significativa di sostanze inquinanti. Guardando oltre i confini nazionali, è di particolare interesse il documento intitolato “Stampanti laser, fotocopiatrici e toner: pericoli per la salute”, predisposto dall’ente che gestisce il sistema di sicurezza sociale svizzero (SUVA). Nella versione di tale documento diffusa nel luglio 2015, in linea generale, si evidenzia come le emissioni delle stampanti con tecnologia laser e delle fotocopiatrici siano di norma ampiamente al di sotto dei valori tali da destare preoccupazioni; tuttavia, pur dando atto che i dati attualmente disponibili non permettono di trarre delle conclusioni definitive, non si esclude che le polveri di toner possano avere un effetto cancerogeno.
Tornando alla vicenda processuale definita dall’ordinanza n. 2366 del 2018, si è già accennato al fatto che uno dei punti nodali riguardava la prescrizione del diritto al risarcimento del danno. I giudici d’appello, pronunciandosi sull’eccezione all’uopo sollevata dall’amministrazione datrice di lavoro, l’avevano respinta, rilevando che l’iniziativa dei congiunti andava inquadrata sotto l’egida della responsabilità aquiliana (sì che in tal senso andava riqualificata la domanda), ma che il termine prescrizionale di cinque anni doveva essere soppiantato da quello di dieci anni previsto, secondo la disciplina applicabile ratione temporis, per il delitto di omicidio colposo i cui estremi erano ravvisabili nel caso di specie. (quantunque il regime della prescrizione penale sia cambiato per effetto della l. 5 dicembre 2005, n. 251, si è affermato che la durata da considerare, ai fini civilistici, di cui all'art. 2947, comma 3, c.c., è quella prevista alla data del fatto: così Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2012, n. 7553). La Suprema Corte, investita della questione, ha ribadito che è consentito al giudice d’appello pervenire a una qualificazione della fattispecie diversa da quella operata in primo grado, onde individuare in maniera appropriata il termine di prescrizione (nel senso che quando la domanda è rigettata in primo grado in applicazione del termine di prescrizione correlato alla sua qualificazione giuridica, se il giudice d’appello procede d’ufficio a una diversa qualificazione della stessa, alla quale è riferibile un differente termine prescrizionale, non opera il giudicato interno sul termine di prescrizione individuato dal primo giudice in riferimento alla qualificazione originaria della domanda, v. Cass. civ, sez. III, 10 febbraio 2017, n. 3539). Rispetto ai mezzi di gravame con i quali si contestava la mancata prospettazione di un reato da parte di danneggiati e in ogni caso l’omesso accertamento di fatti di rilevanza penale, la Cassazione replica piuttosto agevolmente, ricordando il consolidato orientamento in virtù del quale l’applicabilità all’illecito aquiliano della prescrizione più lunga stabilita per il corrispondente reato è del tutto slegata dalla promozione dell’azione penale, essendo invece correlata soltanto all’astratta previsione dell’illecito come reato e non alla condanna in sede penale (Cass. civ., sez. III, 26 febbraio 2004, n. 3865). Spetta invero al giudice civile accertare, incidenter tantum e con gli strumenti probatori e i criteri propri del relativo processo, l’esistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, sia soggettivi che oggettivi (in tal senso Cass. civ., sez. III, 25 novembre 2014, n. 24988; Cass. civ., sez. un., 18 novembre 2008, n. 27337; nonché Cass. civ., sez. III, 23 giugno 2009, n. 14644, dove si fa operare tale principio con riferimento all’illecito commesso da militari statunitensi di stanza in Italia, e come tale sottratto alla giurisdizione italiana ai sensi dell’art. 7 del Trattato di Londra del 19 giugno 1951). Del pari destituita di fondamento è l’invocazione del regime di cui all’art. 10 del testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (secondo cui la sentenza penale di condanna, quale fatto oggettivo, costituisce l’elemento pregiudiziale per la pronuncia di risarcimento del danno in sede civile: Cass. civ., sez. lav., 18 giugno 2004, n. 11432), dal momento che la pretesa volta al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale esula dall’indicata disciplina. di Palmieri Alessandro - Professore associato di Diritto privato comparato nell'Università degli Studi di Siena 

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