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TRA I BOCCIATI AI QUIZ ANCHE IL DIRETTORE DE LA TECNICA DELLA SCUOLA

venerdì 28 dicembre 2012


“DE CONCORSIS CONSOLATIONE”:
Anche il nostro direttore bocciata alle preselezioni per l’ammissione al concorso a cattedra. Inflessibili i test “strutturati per tagliare”. La lunga esperienza al giornale e la puntuale preparazione con gli esercitatori del Miur annegano nel mare dei quesiti
Non che avesse intenzione di insegnare, visto che dirige il più antico periodico di informazione scolastica, il nostro direttore, Daniela Girgenti, voleva solo capire dal di dentro, e per descriverlo in un secondo momento ai lettori del suo giornale (come ha fatto sul La Tecnica della Scuola in edicola) tutti i meccanismi e le fasi tecniche che alla fine consentono ai candidati di sfondare nella prova preselettiva alla quale, come ormai è noto, si erano iscritti oltre 320mila aspiranti prof e che si è svolta lo scorso 17 e 18 dicembre.
Una sorta di quinta colonna insomma tra le linee del Miur e tra i quiz affastellati con procedura casuale da parte del computer centrale e affrontati, da parte sua, non già con l’ansia della conquista del posto, ma con l’occhio critico di chi da decenni si occupa di scuola, capendone dal di dentro tutte le pieghe e i risvolti. Un’esperta, con tanto di laurea conseguita nel 1982, e quindi in perfetta regola col bando, e profonda conoscitrice sia di didattica e sia di normativa, per cui tecnicamente impeccabile per insegnare e per sapersi districare nella selva delle ordinanze ministeriali, delle proposte pedagogiche e normative che stanno invadendo la scuola italiana.
In più conosce perfettamente tutti i marchingegni della riforma Gelmini, insieme alle indicazioni nazionali che su quella scia sono state pubblicate: un’esperta insomma e una docente in pectore perfetta. E invece, “Mission impossible” ha scritto nel suo editoriale, anche se ora è in attesa di sapere dove ha sbagliato, benché di una cosa sia certa e cioè che il sistema implementato dal Miur, non solo era demenziale ma anche “messo in piedi per far sì che i candidati venissero bocciati a migliaia. Il “simulatore”, fornito dal Ministero per “esercitarsi”, era una vera e proprio diavoleria, una tortura moderna del povero candidato che aspirava a salire in cattedra.” Considerazione, quella del direttore de “La Tecnica”, che è in antitesi con la dichiarazione del ministro Profumo, data subito dopo la conclusione delle prove che hanno visto vincitori solo il 33,5% dei partecipanti: “Sembra ci sia una stretta relazione tra i risultati dei test delle scuole e poi la professionalità delle persone che vengono valutate. Le persone che hanno studiato hanno ottenuto degli ottimi risultati, quasi al 100%, hanno risposto a tutte le domande e anche in tempi ridotti. Le persone che avevano dato poca attenzione a questa fase preparatoria hanno avuto dei risultati non positivi”.
Qualcosa dunque non funziona nell’analisi del ministro, e non solo perché abbiano un chiaro esempio di sbaglio tecnico, perché appunto il direttore della Tecnica della scuola potrebbe essere, almeno da un punto di vista teorico, un’ottima insegnante, ma anche perché aveva studiato negli esercitatori con similare impegno di chi vuole sfondare a tutti i costi, anche per dimostrare la permeabilità “culturale” del sistema.
In ogni caso i due giorni di purgatorio dei trecentomila, giovani e forti, concorrenti, anche se non tutti giovani e non tutti forti, sono trascorsi, lasciando in molti l’amaro in bocca, come per certi versi lo ha lasciato alla nostra amica Daniela Girgenti: “Sinceramente non me lo aspettavo, anche perché avevo studiato sull’esercitatore del Miur con assoluta coscienza e attenzione”, benché in tutto il meccanismo elaborato dal Miur c’era l’intenzione di “evitare che gli aspiranti memorizzassero i quesiti, dando la risposta giusta”: ma come è possibile in 19 giorni mandare a memoria senza capirli migliaia di domande? E poi, dice Girgenti, “anche se questo fosse successo, quanti candidati sarebbero stati in grado di farlo: 1.000, 2.000? E per una così piccola percentuale si toglie alle altre centinaia di migliaia la possibilità di apprendere dai propri errori che è poi il principio base dell’insegnamento?“
Ma non solo, quando dichiarato dal Miur, secondo cui “le percentuali di ammessi al concorso seguono curiosamente l’andamento dei risultati delle rilevazioni sugli apprendimenti degli studenti Ocse PISA 2009”, per cui emergerebbe “una correlazione diretta tra la bravura degli studenti e la capacità dei candidati di superare i test, quindi tra studenti più preparati ed aspiranti docenti più preparati”, appare anch’essa abbastanza forzata, nella considerazione che la bravura non si può misurare a colpi di quiz o di test talvolta pure cervellotici e “demenziali”.
Nulla di personale nella scelta del Miur delle preselezioni, ma con ogni probabilità occorre pure trovare nuove formule o nuovi marchingegni, e non solo per evitare gli affollamenti di personaggi strani in giuro fra le domande, ma anche per riconoscere, come a quel maestro che si scusava coi suoi alunni perché era stato bocciato, finalmente la bravura e il merito.
L’avevamo già sottolineato: in principio fu la parola, dice la Bibbia, ma queste sono parole che, in forma di test o di quiz o di flash, si sono fatti beffa di tanti candidati bravi e preparati, risultando perfino ingiuriosi dell’intelligenza e delle bravura, manifesta o meno, di tanti docenti che con sacrificio, costanza, volontà hanno studiato e si sono preparati.
di Pasquale Almirante La Tecnica della Scuola

Il crack che viene dal mare

mercoledì 26 dicembre 2012 · Posted in , ,


di  Sergio Bologna

HSH Nordbank ha nel suo settore di business un po’ il valore simbolico che Lehman Brothers aveva nel settore dei derivati. Ci troviamo di fronte al ripetersi di un copione già conosciuto ma la grande differenza tra il 2008 ed oggi è che allora la paralisi aveva colpito il circuito immateriale e virtuale del denaro, oggi colpisce il circuito fisico delle merci, dunque potrebbe essere più spettacolare, più”visibile” e creare ostacoli alla globalizzazione più consistenti e duraturi. Come scrive un importante operatore su “Lloyd’s List”: “Questa sarà la peggiore crisi della navigazione di linea da quando, 40 anni fa, è iniziata l’epoca del container” ed aggiunge “gran parte della responsabilità ricade su quei governi che hanno concesso agevolazioni fiscali a chi investe nelle navi”.

Ma per capire le dinamiche interne di questa crisi è necessario capire il rapporto tra la nave come prodotto industriale e la nave come prodotto finanziario sullo sfondo del cosiddetto “gigantismo navale”, cioè della tendenza inarrestabile a costruire unità sempre più grandi.

Dopo la bolla immobiliare e dei mutui sub prime, la bolla dello shipping nel settore dei container. L’epicentro si è spostato da New York ad Amburgo

I fatti
17 febbraio 2012, il sito www.manager-magazin.de annuncia che il fondo chiuso d’investimento LF 16, di Amburgo, creato dalla casa di emissioni Lloyd Fond, ha dichiarato lo stato di Insolvenza[1]. LF 16 era un fondo specializzato in investimenti nel settore dello shipping, in particolare nell’acquisto di navi. Detto in parole semplici, il privato che entra a far parte di un’operazione del fondo mette a disposizione una quota di capitale necessario all’acquisto della nave presso i cantieri e confida che il valore della nave, una volta pronta ad entrare in esercizio, sia tale da poterne uscire con un guadagno, ove venduta, oppure che il prezzo al quale la nave sarà noleggiata gli consenta un profitto nel tempo. I fondi chiusi non permettono di uscire fino al termine dell’operazione e, in periodi di crisi, sono spesso costretti a chiedere agli investitori uno sforzo finanziario supplementare, per non andare a picco. “Solo nel primo trimestre del 2011 i risparmiatori hanno dovuto rifinanziare i fondi con 41,6 milioni di euro di denaro fresco”, scrive il 13 giugno 2012 la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” (FAZ) sul suo sito www.faz.net [2].  I fondi per lo shipping sono, si può dire, una specialità tedesca e la piazza più importante è Amburgo. Rappresentano però la periferia del complesso sistema della finanza dello shipping, fanno appello alla moltitudine dei risparmiatori, grazie anche a una normativa fiscale particolarmente favorevole in Germania. Spesso i risparmiatori non sono bene informati, il settore non è regolamentato, il periodo di tempo per il quale il capitale del risparmiatore resta impegnato dura in genere 15 anni e in questo lasso di tempo i capitali non possono esser ritirati e liquidati né la partecipazione può essere negoziata, come fosse dei bond di stato. Molti, ingenui o inesperti, rimangono in trappola[3].  Se questa è la caotica periferia, il centro del sistema è formato da un ristretto gruppo di grandi banche specializzate in questo genere di business, la Royal Bank of Scotland, la LLoyd Bank, la Commerzbank, la HSH Nordbank. Quest’ultima, una banca pubblica posseduta a metà tra la città-stato di Amburgo e il Land dello Schleswig Holstein, è la più esposta di tutte, aveva avuto già grossi problemi nel 2008 ed era stata la prima banca tedesca a ricorrere all’aiuto dello stato. Da quel momento la proprietà – ovvero i partiti che governano i due Länder – si è svegliata ed ha messo sotto la lente la gestione della banca, pungolata da una campagna di stampa e dall’opposizione. Due Amministratori Delegati sono saltati, uno è sotto procedimento giudiziario. Erano stati elargiti crediti a clienti d’improbabile solvibilità e commesse una serie d’irregolarità. Nel 2009 i parlamenti dei due Länder avevano deciso tuttavia di concedere alla HSH Nordbank la possibilità di ricorrere al fondo di garanzia delle regioni (Zweitverlustgarantie) sino a un massimo di 10 miliardi di euro! L’economia marittimo-portuale è la prima fonte di reddito lassù nel Nord. Già nel 2010 e 2011 però la banca, con una situazione finanziaria e dello shipping migliorata, aveva cominciato a ripagare il debito del salvataggio[4].  Alla metà del 2012 il combinato disposto della crisi nell’eurozona, della recessione mondiale e la conseguente entrata in crisi del settore dello shipping, particolarmente violenta nel mercato dei traffici containerizzati, riporta la HSH Nordbank sull’orlo del collasso.

16 luglio 2012, la FAZ torna sull’argomento con un articolo di Christian Müßgens e Johannes Ritter, corrispondenti da Amburgo: “i prezzi di vendita di molte navi ormai sono scesi così in basso da sfiorare i valori delle navi in demolizione”[5].  Se i valori degli asset che i fondi hanno in portafoglio crollano, il fondo fallisce, il valore patrimoniale delle banche si riduce drammaticamente. A settembre si parla già di 266 fondi in difficoltà, al Forum della Hansa, che si tiene a metà novembre, gli esperti, riferisce “Handelsblatt”, prevedono che circa 500 navi non troveranno più investitori disposti a sopportarne le spese di gestione, i noli (charter rates) sono crollati[6]. 

Il primo dicembre la cima della piramide si fa finalmente sentire. In un’intervista concessa a “Hamburger Abendblatt”, il nuovo Amministratore Delegato della HSH Nordbank, Constantin von Oesterreich, dichiara senza mezzi termini che se non farà ricorso al fondo di garanzia dei Länder sino a una cifra di 1,3 miliardi di euro per un periodo di tempo che comprende tutto il 2025 la banca rischia di chiudere e aggiunge: “non facciamo conto che la situazione possa migliorare prima del 2014. Ma può essere anche che si vada al 2015 o al 2016”[7].

HSH Nordbank ha nel suo settore di business un po’ il valore simbolico che Lehman Brothers aveva nel settore dei derivati. Ci troviamo di fronte al ripetersi di un copione già conosciuto ma la grande differenza tra il 2008 ed oggi è che allora la paralisi aveva colpito il circuito immateriale e virtuale del denaro, oggi colpisce il circuito fisico delle merci, dunque potrebbe essere più spettacolare, più”visibile” e creare ostacoli alla globalizzazione più consistenti e duraturi. Come scrive un importante operatore su “Lloyd’s List”: “Questa sarà la peggiore crisi della navigazione di linea da quando, 40 anni fa, è iniziata l’epoca del container” ed aggiunge “gran parte della responsabilità ricade su quei governi che hanno concesso agevolazioni fiscali a chi investe nelle navi”[8]. 

Ma per capire le dinamiche interne di questa crisi è necessario capire il rapporto tra la nave come prodotto industriale e la nave come prodotto finanziario sullo sfondo del cosiddetto “gigantismo navale”, cioè della tendenza inarrestabile a costruire unità sempre più grandi.

La nave come prodotto industriale
E’ l’idea comune che abbiamo di una nave, uno strumento tecnologico impiegato su un mercato con un certa caratteristica di domanda e offerta, che ha determinati costi operativi e produce determinati ricavi. In termini di costi unitari una nave grande presenta dei vantaggi; dunque, secondo i manager delle compagnie, le economie di scala funzionano in questo business ed è corretta la corsa al gigantismo. Bella scoperta, se n’erano già accorti i genovesi nel Trecento! Ma il mercantilismo di allora era un po’ diverso dal capitalismo di oggi, procediamo con ordine.

Secondo la più recente edizione dello studio Drewry sui costi operativi delle navi portacontainer (ottobre 2012), questi sono passati dall’indice 100 del 2000 all’indice 170 del 2010 e dopo una breve discesa dovrebbero arrivare allo stesso livello nel 2015[9]. 

Si intuisce che questo dipende in massima parte dall’aumento del costo del carburante. In genere l’aumento del carburante viene scaricato sul cliente secondo il meccanismo della surcharge più famosa, il BAF (Bunker Adjustment Factor). Poiché sono in arrivo degli inasprimenti sulle normative riguardanti le emissioni ed in particolare sull’obbligo di utilizzare carburanti a basso contenuto di zolfo, sensibilmente più costosi, in determinati mari del mondo, il valore relativo di una nave oggi viene sempre più calcolato sui suoi bassi consumi di carburante. La nave, come vedremo, sempre più diventa da prodotto industriale a prodotto finanziario.

Il costo operativo di una nave portacontainer da 10 a 12.000 TEU, secondo Drewry, era di 13.420 dollari/giorno alla fine del 2011, sarà di 13.778 dollari/giorno nel 2016. Per navi da 5 a 6.000 TEU era di 9.890 dollari/giorno a fine 2011 e sarà di 10.247 nel 2016. Previsioni sui noli sono più difficili da fare. Salta agli occhi la grande differenza tra il forte aumento dei costi operativi nel periodo 2000-2008 e il modesto aumento tra il 2010 e il 2016 (se le previsioni Drewry ci azzeccano)[10]. 

Sull’evoluzione del mercato “industriale” dello shipping abbiamo informazioni in tempo reale che riguardano i noli, rates. Attenzione però, si tratta in genere di noli base, sono escluse le surcharges, si dovrebbe ragionare invece sempre in termini di all-in rates per capire se le compagnie riescono a coprire i costi e guadagnarci. Un periodo di noli bassi per eccesso di offerta o per calo della domanda può portare a forti perdite operative. Così è stato nel 2011 e nel primo trimestre del 2012 a causa di eccesso di offerta, nella seconda metà del 2012 a causa del calo di domanda, in particolare nell’eurozona e nel Mediterraneo[11].  In linea generale 2010, 2011 e 2012 sono stati anni di bassi profitti (più corretto sarebbe dire di risultati operativi deludenti). Se il calo della domanda non dipende dalle compagnie marittime, è invece loro intera responsabilità aver creato eccesso di offerta, cioè di aver messo in servizio troppe navi e di aver provocato in tal modo un crollo dei noli e, come se non bastasse, di aver continuato a ordinare nuove navi ai cantieri e di aver ritirato tutte quelle in consegna. Un gioco da pazzi, da “sconsiderati” come lo definisce Drewry (the foolhardiness of carrier’s strategic actions in 2011), verificatosi proprio nel 2011 ed al quale le compagnie non hanno saputo ancora reagire in maniera organica ma solo episodica. All’inizio hanno pensato di cavarsela con lo slow steaming, che, riducendo la velocità di crociera delle navi, in effetti provoca una riduzione di capacità, poi hanno cominciato a  tagliare un servizio di qua, a ridurre il numero delle navi di un servizio di là, hanno mandato molta roba in disarmo o in demolizione, mentre nel mercato della domanda la recessione cominciava a mordere, soprattutto nella olive belt mediterranea, nei grandi paesi marittimo-portuali di Grecia, Italia e Spagna. Ma decisioni strategiche di lungo respiro non le hanno prese. Ed hanno continuato in questo comportamento masochista, autolesionista. Ma sono così stupidi davvero oppure c’è dietro qualcosa d’altro?

Sulla rotta Far East-Nord Europa/Mediterraneo, agli inizi di novembre 2012 erano impiegate 258 navi su 24 differenti servizi. La capacità media di queste navi è di 10.000 TEU. Cifre che darebbero ragione a chi scava, scava, scava, ma la faccenda non è così semplice. “Un servizio sulla rotta Asia-Europa richiede 12 navi di almeno 12.000 TEU ciascuna”, dichiara un dirigente CMA CGM a “Containerisation International” del 25 ottobre 2012, “ciò equivale a un investimento da 1,4 miliardi di dollari, ma per essere competitivi di servizi bisogna averne almeno tre, quindi si arriva a 4,2 miliardi. 
Poi ci sono i container vuoti da assegnare alle navi, 18.000 TEU ciascuna e sono altri 400 milioni di dollari.

Cifre consistenti, risorse che possono essere fornite solo con il supporto del sistema bancario, 24 servizi che costano 1,5 miliardo e mezzo di dollari ciascuno, 36 miliardi di dollari sulla rotta Asia-Europa! Il rapporto con le banche diventa vitale. Nei rapporti con le banche le compagnie fanno valere: la quota di mercato, il valore degli asset (naviglio di proprietà), le previsioni di crescita. La quota di mercato, come argomento principe del rating bancario, spiega la folle corsa ad acquisire volumi ed a mettere in servizio capacità, offerta di stiva, a costo di praticare tariffe da dumping. La valorizzazione degli asset spiega la folle corsa all’acquisto di navi. Probabilmente si accorgono ora, di fonte all’evidenza della recessione mondiale, che questi asset possono svalutarsi rapidamente, com’è capitato alle proprietà immobiliari durante la bolla immobiliare.

La ripartizione dei rischi
Peter Döhle è un’azienda che appartiene alla categoria dei non operating ship owner (NOO). Ha 6.800 dipendenti e sede a Amburgo, controlla circa 450 navi, di cui 320 portacontainer. Che significa? Che una parte sono di proprietà – un centinaio circa – una parte sono gestite per conto di un proprietario (ship management), una parte è costituita da navi di cui Döhle ha il brokeraggio in esclusiva. I gioielli della flotta sono 4 navi da 13.000 TEU costruite dai cantieri Hyundai di Ulsan, dotate di 800 posti reefer ciascuna, velocità massima 24.3 nodi, consumo di carburante 272 ts, due già consegnate, altre due lo saranno nel 2013 e sono/saranno messe tutte e quattro in servizio da Hanjin; 4 navi da 12.500 TEU, costruite dai cantieri Samsung, con 1.000 posti reefer ciascuna, velocità massima 24.8 nodi, consumo di carburante 289 ts., in servizio per la MSC. Döhle è un’azienda familiare, il suo business è di acquistare una nave e noleggiarla a scafo nudo oppure no, può noleggiare in esclusiva una nave di terzi, può fornire a terzi l’equipaggio, l’amministrazione, la manutenzione ecc., può fare tutte queste cose insieme. La sola cosa che non può fare è il mestiere del carrier, acquisire carichi e consegnarli. Nei rapporti coi cantieri o è un cliente diretto oppure un intermediario per conto di terzi. Amburgo è la capitale mondiale delle società di non operating ship owner (NOO) – chiamati in gergo semplicemente owner, mentre la Maersk, MSC, Hapag LLoyd ecc. vengono chiamati carrier - ed è questa la ragione per cui la Germania è il primo paese al mondo per proprietà di navi portacontainer. Ma in questi momenti il settore dimostra tutta la sua fragilità, è troppo frammentato, una forte azione di consolidamento avrebbe bisogno di un sostegno vigoroso da parte delle banche, che però si trovano alle strette anche loro. Siamo entrati nel tipico circolo vizioso[12].   Gli specialisti di questa categoria di società di navigazione svolgono un ruolo insostituibile nello shipping, perché consentono alle grandi compagnie mondiali flessibilità e ripartizione dei rischi finanziari e di responsabilità civile. Quindi i grandi carrier mettono in servizio una parte di flotta che è pura risorsa industriale (noleggiata) ed una parte di flotta che è risorsa industriale e finanziaria (di proprietà). Ma l’azione positiva che questi soggetti, assieme ai fondi chiusi, svolgono nella ripartizione dei rischi, si ritorce in azione negativa quando la nave è trattata come un puro prodotto finanziario, che viene ceduto dall’uno all’altro in un infernale gioco dei quattro cantoni: owner, carrier, fonds, bank. Anzi, come si legge sui siti dei principali studi di avvocati specializzati nella difesa dei diritti dei risparmiatori che hanno investito nei fondi navali, non di rado gli owner cedono la nave al fondo chiuso e realizzano solo per questo un notevole guadagno, che ovviamente il fondo dovrà recuperare presso i risparmiatori[13].

Lloyd’s List Intelligence ha voluto andarli a sentire i NOO, poiché sono quasi tutti tedeschi, i risultati dell’inchiesta sono contenuti nel Rapporto Spotlight on Germany, diffuso il 26 novembre. Riporto per intero i principali risultati:

-    i maggiori istituti di credito navale stanno abbandonando questo settore di business o restringendo il loro portafoglio
-    l’84% del campione intervistato ritiene che nei prossimi 12 mesi ci saranno casi d’insolvenza tra le compagnie marittime
-    gli stessi proprietari non operatori (NOO) ritengono possibili cambiamenti drammatici[14].

Fuggi, fuggi dunque, l’aria che tira è che siamo alla vigilia di un colossale crack.

La nave come prodotto finanziario
“È tutta colpa dei cantieri!”. Rimasi interdetto un paio d’anni fa a sentire questa risposta. Avevo interpellato uno dei maggiori agenti marittimi italiani per sentire la sua opinione su quanto sta succedendo nel mondo dello shipping. Mi ha dato qualche altra “dritta”, ho cominciato a rifletterci e sono arrivato alla conclusione che si capiscono i comportamenti dello shipping ragionando in termini di finanza piuttosto che in termini “industriali” e che l’argomento “economie di scala” a proposito del gigantismo navale non è affatto quello che determina le scelte, è più un pretesto, altre sono le logiche. Secondo DynaLiners Weekly del 16 agosto la Maersk ha pagato ai cantieri sudcoreani 190 mln di dollari per una nave da 18.000 TEU Triple E-Class, cioè dotata dei dispositivi d’avanguardia più sofisticati, di motori dal minimo consumo possibile allo stato attuale delle tecnologie, un gioiello. 190 milioni di dollari, un ottimo prezzo. La cantieristica mondiale viene sussidiata dai vari stati, in particolare nel Far East, si tratti di Corea del Sud, di Cina, Giappone o di altri. Mediante questi sussidi, erogati per mantenere l’occupazione o semplicemente per mantenere la bandiera nazionale su certi mercati, questi cantieri possono praticare prezzi che appena coprono i costi di produzione o proprio sottocosto. Qualche cantiere europeo regge ancora sul mercato delle portacontainer solo perché si iperspecializza.

La nave, una volta acquistata, viene iscritta in bilancio al valore d’acquisto, le sue caratteristiche tecnologiche – in particolare il consumo di carburante, il consumo di oli lubrificanti, la frequenza e la complessità delle manutenzioni e delle riparazioni, le dotazioni di sicurezza, il livello d’automazione delle manovre, dei controlli ecc. – ne determinano il valore di mercato assai più che la capacità. Non vale tanto perché è in grado di portare più container, ma perché appartiene a un’epoca tecnologica superiore. I cantieri le sfornano a prezzi sempre più convenienti, le compagnie le ritirano e ne iscrivono in bilancio il valore con la speranza che l’anno successivo potranno aggiornarlo cresciuto di un tot oppure con la certezza che avranno svalutato le navi tecnologicamente meno sofisticate dei competitor. La corsa al gigantismo è una sfida sulla lama del rasoio tra valori patrimoniali, è un modo per indebolire l’avversario, alzando sempre più l’asticella non tanto in termini di capacità ma in termini d’innovazione tecnologica. Per tornare all’esempio di prima, delle navi che Peter Döhle mette a disposizione di Hanjin e di MSC: quelle da 13.000 Teu della Hanjin hanno un consumo di carburante di 272 ts, quelle di MSC da 12.500 Teu hanno un consumo di 289 ts, sono più piccole e consumano di più (è vero che hanno 200 posti reefer in più). Non conosciamo i prezzi di acquisto ma non è escluso che quelle di Hanjin, costruite due anni dopo, siano costate di meno. Non solo, noi dobbiamo sempre ragionare all’interno di parametri propri della debt economy, la politica finanziaria di colossi come le top 20 del traffico container è quella di presentare una situazione patrimoniale che consenta loro di garantire i crediti bancari, l’acquisto di una nave nuova e tecnologicamente sofisticata rende la compagnia più forte nei confronti di una banca. Questa dinamica puramente finanziaria porta alla sovracapacità. Se con una nave in più s’intasa un’offerta di stiva già in eccesso ed i noli crollano, sono problemi della gestione operativa. Intanto ci si può vantare di aver messo in servizio navi dal costo unitario inferiore per unità di carico. Questa è l’idea di economia di scala: diminuire il costo unitario. Ma il costo unitario dipende da una variabile fondamentale: il tasso di riempimento. Una nave da 10.000 TEU riempita all’80% ha un costo unitario inferiore a una di 6.000 con lo stesso tasso di riempimento. Ma se il load factor si riduce al 60% a causa della crisi della domanda? E’ un bagno di sangue. L’economia di scala del gigantismo navale non si regge su valori assoluti ma relativi. Se poi i noli crollano e la domanda pure, causa la recessione mondiale, i valori delle navi precipitano, la situazione patrimoniale diventa critica, le banche girano le spalle al mercato e si entra nel circolo vizioso che porta al crack.

Da sempre fare l’armatore significa avere disponibilità di grandi risorse finanziarie, non l’armatore-padroncino beninteso, proprietario di una-due navi, ma l’armatore con una flotta degna di questo nome. Immaginiamoci fare l’armatore di una compagnia del traffico container, che gestisce decine, centinaia di navi, del rango di quelle 20 prime al mondo e di cui le prime tre sono Maersk, MSC e CMA-CGM. La necessità di risorse finanziarie è tale da renderle clienti piuttosto appetibili per il mondo bancario. Le compagnie del settore container hanno una liquidità fenomenale, prima di caricare un container su una nave chi lo spedisce deve aver depositato il valore del nolo in banca, il bill of lading. Si paga in anticipo. Ovviamente il grande cliente, tipo Kühne&Nagel, DB Schenker, DSV, Panalpina, ha condizioni di pagamento particolari ma “il popolo degli speditori”, quello paga in anticipo[15].  La gestione finanziaria a breve di questa liquidità è uno dei grandi volani del business del container. Il finanziamento di un nuovo servizio, che di per sé è un progetto industriale a medio termine, solitamente viene ripartito tra mezzi propri e indebitamento bancario. Comunque sia, le grandi compagnie del traffico container appartengono a quella razza privilegiata che si chiama too big to fail. Esposte in maniera consistente presso le banche, non possono esser lasciate fallire. Le prime tre in classifica sono un campionario bizzarro. La Maersk appartiene in sostanza a un gruppo petrolifero al quale i capitali non sono mai mancati, poi le sue attività nello shipping sono cresciute di peso all’interno del gruppo AP Moeller, diversificato in tante attività, dalla grande distribuzione al turismo e infine cresciuta molto nel settore terminalistico che produce fiori di profitti, mentre le linee di navigazione danno qualche problema. Il gruppo ha campi petroliferi e per l’estrazione di gas naturale in varie parti del mondo, questo produce risorse finanziarie di notevole entità, non tanto da essere autosufficiente ma da poter negoziare con le banche da una posizione molto forte, da petroliere e da armatore. MSC è un mistero, è la grande compagnia meno trasparente al mondo, non comunica i dati, non conferma, non smentisce. Uno spiraglio ci viene dalla CMA CGM perché la stampa spesso deve occuparsene. Fondata da Jacques Saadé, nato a Beirut e naturalizzato francese, e diretta oggi dal figlio, malgrado sia la terza al mondo naviga da un bel po’ di tempo in cattive acque, forse per le eccessive acquisizioni fatte nel decennio 1997-2007. E’ stata la prima compagnia mondiale a puntare sulle megacarrier (ULCS, Ultralarge Containership), nel 2010 trova un socio di capitale, l’uomo d’affari turco Yildrim, capo di un gruppo minerario, che la salva ma si oppone all’acquisto di 20 nuove navi[16].  Nel 2014 si dovrebbe aprire l’Offerta Pubblica di Acquisto (IPO) della CMA CGM. Le ultime notizie, di metà novembre, dicono che la compagnia ha raggiunto un nuovo accordo con le banche per ristrutturare il debito. Sono quelle notizie che fanno rabbrividire il piccolo cliente della banca, il piccolo risparmiatore, perché sa che ristrutturare vuol dire sollevare l’insolvente dalle urgenze di pagamento e farne pagare il costo al piccolo correntista. È lo sporco gioco fatto con gli immobiliaristi, far pagare le loro “sconsideratezze” ai comuni cittadini e alle imprese manifatturiere. Pochi giorni prima dell’annuncio dell’accordo con le banche creditrici, la CMA CGM comunicava che stava aggiungendo alla sua flotta tre nuova unità da 16.020 TEU, le più grandi del mondo[17].  Alphaliner del 22 novembre precisava che la consegna delle tre megacarrier era stata rimandata da CMA CGM ad aprile 2013. In primavera la compagnia aveva noleggiato tre unità da 13.500 perché non aveva abbastanza capacità da opporre ai concorrenti su determinate rotte. Troppo occupata a marcare stretto il competitor, la leadership dell’armamento non si accorge che la recessione c’è davvero e che la corsa all’eccesso di stiva rischia di finire nel disastro. Anche se sono sull’orlo del dissesto continuano ad aggiungere “grandi navi” alla loro flotta, sempre più grandi. C’è qualcosa che non funziona.

La Maersk dice alt!
Il 19 novembre il CEO di Maersk, Nils Andersen, dichiara al “Financial Times”: “nei prossimi cinque anni non investiremo di più nello shipping, abbiamo capacità sufficiente per crescere in armonia con il mercato, lasceremo questo settore per spostarci su dei business che garantiscono alti profitti e sono più stabili, porteremo la quota di capitali dedicati allo shipping dal 30% al 25% in modo da riservare al resto il 50%, nei prossimi anni non daremo nuove commesse ai cantieri, saranno sufficienti le consegne delle 20 navi da 18.000 TEU già ordinate”. La notizia fa sensazione, due giorni dopo, intervistato dalla CNN, Andersen ribadisce che intendono spostare maggiori risorse verso i business più redditizi, come l’oil and gas ed i terminal, ma che nello shipping non rinunceranno a difendere la loro posizione di leader di mercato. Aggiunge che il problema dell’economia mondiale è soprattutto l’Europa ma di ritenere che già nella seconda metà del 2013 i volumi dei traffici container da e per l’Europa riprenderanno a crescere.

Andersen lo può ammorbidire fin che vuole ma ormai il messaggio è lanciato, lo si interpreti come si vuole, è un segnale inequivocabile. Il problema è che certe conseguenze disastrose provocate dal gigantismo navale le pagheremo tutte noi, cittadini di paesi a vocazione marittimo-portuale.

Lo studio Alix Partner
A ottobre la società Alix Partner pubblica uno studio che fa il punto della situazione, Sailing in a Sea of Red. The Alix Partner Container Shipping Study. Il giudizio è impietoso: solo due su sedici compagnie analizzate hanno portato a casa risultati positivi nella gestione operativa. Esaltate dalla crescita dei volumi sulle due rotte principali, transpacifica Asia-Americhe e Far East-Europa, le compagnie hanno acquisito capacità di stiva e l’eccesso di offerta ha fatto crollare i noli, solo nel 2012 sono entrate in servizio ben 59 nuove navi da più di 10.000 TEU di capacità. E qui finalmente una stoccata al gigantismo navale: puntando ad uniformare le flotte nelle due rotte più redditizie su livelli di capacità superiori ai 10.000 TEU le compagnie hanno introdotto nei moduli operativi una rigidità che rischia di diventare una trappola[18] : “le rotte che segnano la crescita più elevata sono quelle da paese emergente a paese emergente e riguardano le direttrici Nord-Sud. Ma queste rappresentano nel loro insieme solo un quarto dei volumi complessivi. Una gestione operativa efficiente di questi traffici richiede navi adatte, più piccole, più flessibili, guarda caso proprio il tipo di naviglio che le compagnie stanno buttando via”.

Nel 2011 le perdite delle sedici compagnie che lo studio ha preso in esame sono stimate in 6 mld di dollari. L’indebitamento totale è raddoppiato rispetto al 2007 ed ha toccato i 90 miliardi di dollari (escluse le perdite operative). CIRCA LA META’ DELLE COMPAGNIE ANALIZZATE DALLO STUDIO NON E’ IN GRADO DI PAGARE GLI INTERESSI DEL DEBITO (are unable to cover the interest payments). L’indice di Altman che segnala il rischio d’insolvenza mette in luce una situazione di estremo distress.

E qui comincia il bello, le compagnie non hanno liquidità, debbono ricorrere al prestito bancario ma molte banche si sono ritirate dal business o hanno ridotto la loro esposizione nel settore dello shipping, che noi già conosciamo, la Royal Bank of Scotland, la Lloyd Bank, la Commerzbank e HSH Nordbank. Per uscire dai pasticci le compagnie provocano altri danni, peggiorano il servizio, ridotto ai basic services, scaricano sui clienti le loro contraddizioni. Merita riportare integralmente la citazione: “riconquistare un livello di redditività è d’obbligo, ma, a causa della sovracapacità che ha effetti devastanti sul settore, i carrier decidono semplicemente di tagliare i costi dei servizi in essere, riportandosi indietro a una mentalità da “servizio basic”. In certi casi ci sono servizi very basic e quindi il valore aggiunto di tutti quei ‘fronzoli’ (bells and whistles) con cui una compagnia dice di essere meglio dell’altra sono stati eliminati. Effetto non previsto: i caricatori vedono accrescere il loro rischio finanziario ogni volta che un servizio viene cancellato o modificato e ogni volta che un carrier, per migliorare il tasso d’utilizzazione della capacità, preferisce i carichi che pagano meglio a quelli dei caricatori che cercano il nolo migliore.”

Può darsi che questi giudizi non siano del tutto esatti, gli stessi autori mettono in guardia dal prenderli per oro colato, la situazione evolve di giorno in giorno. A me sembrano coerenti con tanti altri segnali e tante altre informazioni che provengono dal mercato, mi sembrano coerenti con dei ragionamenti generali che già facevo nel libro “Le multinazionali del mare”, con le previsioni d’ordine generale che avanzavo in quella sede, puntualmente verificatesi. Lo studio, in realtà un Libro Bianco, si conclude con la proposta di 5 azioni urgenti: una gestione aggressiva della liquidità (cash management), un taglio drastico di tutte le attività non core, la formulazione di business plan molto focalizzati su obbiettivi raggiungibili, la rifocalizzazione sull’ottimizzazione del capitale investito, l’immediata ristrutturazione del debito con una politica di accordi con le banche (even if financial restructuring is not required negotiate with the banks!).

Non so giudicare se questi consigli sono utili al malato o no, mi limito ad osservare che la crisi del 2008 ci ha dimostrato quanto è difficile per le grandi società di dimensione internazionale cambiare il proprio stile di lavoro ed i propri criteri di giudizio. Vanno verso il baratro, lo sanno, lo vedono, ma sono incapaci di cambiare, di dare una violenta sterzata per evitare il salto nel vuoto. Tanto c’è sempre qualcuno che paga per loro.

Supply chain disruption
All’inizio di quest’anno DHL Deutsche Post ha pubblicato uno studio che vuole essere di grande respiro, Delivering Tomorrow. Logistics 2050. A scenario Study. Coinvolge università, imprese, testimoni privilegiati, il suo stesso top management a livello planetario. DHL è oggi certamente uno dei protagonisti principali della contract logistics, che prova a immaginare il futuro. I cambiamenti climatici vi svolgono un ruolo importante perché uno degli interrogativi fondamentali dello studio è: dobbiamo continuare a sforzarci di ottimizzare le catene di fornitura, le supply chain o dobbiamo concentrare ogni sforzo sui sistemi di risk mangement, sulle misure da prendere in caso di forti perturbazioni (disruption) del funzionamento delle filiere? L’uragano Sandy, per esempio, ha creato problemi non indifferenti sulla costa orientale degli USA, migliaia e migliaia di container con bill of lading New York, secondo il “LLoyd’s List” del 14 novembre, hanno dovuto esser sbarcati altrove, per ragioni di forza maggiore, perché il porto di destinazione era bloccato. In casi come questo i destinatari o gli speditori, a seconda del contratto, debbono recuperarli a proprie spese e riportarli al punto di consegna giusto.

Tra le ipotesi formulate dallo studio DHL non c’era quella di un collasso economico delle compagnie marittime, ma il fatto stesso che il risk management possa essere considerato priorità numero uno della logistica la dice lunga sullo stato di insicurezza in cui questo mondo così sicuro di sé, dove tutto dovrebbe funzionare come un orologio, ormai è immerso. Ma proviamo a immaginare se davvero una delle prime 20 compagnie mondiali dello shipping del container dovesse fare la fine di Lehman Brothers, assisteremmo non a un cataclisma dell’universo immateriale del denaro ma della circolazione “fisica” delle merci. Basta quel che accade in Cina, del resto, per avere nozione dei movimenti tellurici che stanno agitando l’universo della logistica: sul mercato cinese i prezzi del trasporto hanno cominciato a variare all’impazzata, come dichiara un manager di Hellmann Worldwide Logistics a “Lloyd’s List” del 23 novembre, l’intero paese è in ebollizione per l’inflazione che cresce, la domanda che cala, l’insofferenza dei lavoratori ed altro. I servizi della compagnia collassata sarebbero rapidamente ripresi dai famelici competitori ma lo choc sarebbe egualmente importante.

Le conseguenze per i porti marittimi

Negli ultimi dieci anni almeno i porti europei si sono lasciati trascinare da visioni del futuro dominate dal gigantismo navale. Accogliere navi sempre più grandi con banchine sempre più lunghe e fondali sempre più profondi è diventata quasi un’ossessione, che ha fatto perdere di vista altre priorità ed ha reso i decisori prigionieri di una semplicistica e quasi ipnotica fiducia in un’inarrestabile crescita, dei traffici e della dimensione delle navi. Si è perso il senso della realtà, perché proprio nel nuovo Millennio, a partire dall’11 settembre 2001, il mondo ha cominciato a prendere tutt’altra direzione, di eventi imprevisti – prima di tutto quelli climatici – di crisi regionali o planetarie, in una specie di danza del dragone sempre più convulsa e imprevedibile. Consegnandosi alla prospettiva di un destino immutabile che procede in maniera lineare verso il gigantismo, i decisori hanno trasformato i porti non solo in enormi cantieri sempre aperti ma in sistemi sempre più rigidi e meno flessibili, sempre più costosi per il contribuente.

La società di consulenza fiamminga Adstrat Consulting, in uno studio sugli investimenti nei 5 porti del Nord, Rotterdam, Anversa, Zeebrugge, Amburgo, Bremerhaven, reso pubblico nell’autunno del 2012, ha dimostrato quali danni possono produrre certi sovrainvestimenti in opere portuali. Anversa e Zeebrugge, quelli messi peggio, con un tasso di utilizzazione inferiore al 50%, hanno fatto aumenti di capacità che abbasseranno ulteriormente questo tasso di utilizzazione e quindi saranno in perdita cronica. Chi compenserà queste perdite se non il contribuente? Il tasso di utilizzazione medio dei terminal container dei 5 porti del Nord già nel 2015 sarà del 66%! Quale gestore può reggere una situazione del genere?[19]  Quindi il paradosso è che da un lato con nuovi investimenti mal programmati si aumentano i costi del trasporto (e dunque si allontanano i clienti dai nostri porti) e dall’altro si costruiscono porti dove non si raggiungono livelli di redditività accettabili. Anche Bremerhaven, che dei 5 è quello con il tasso di utilizzazione più elevato, oggi rischia di subire l’effetto concorrenziale del nuovo porto di Wilhelmshaven, Jade-Weser Port, che a sua volta, entrato in funzione in ritardo per dei gravi difetti di costruzione, si trova confrontato con una situazione di mercato in piena crisi e non riesce ad acquisire clienti in misura sufficiente a giustificare l’enorme spesa che la finanza pubblica si è accollata.

In Italia invece, nel Mediterraneo, la rincorsa del gigantismo navale sta portando a situazioni grottesche. Progetti faraonici di dubbia realizzabilità tengono banco per mesi e mesi, pretendono di ricevere risorse straordinarie dallo stato, azzerando ogni possibilità di programmazione da parte di governi, che già di per sé hanno le idee poco chiare[20].  A Venezia, Ravenna, Ancona, Napoli, Civitavecchia, Livorno, Genova, si scava per approfondire i fondali, con ambizioni talvolta realistiche talaltra fantasiose. Di questi porti solo Genova può pensare di veder arrivare a scadenze regolari navi sopra i 12.000 TEU, perché la nave cerca la merce non cerca i fondali, perché la toccata di una ULCC non è economica al di sotto di una certa soglia di volumi da sbarcare e imbarcare e nessuno di questi porti, tranne Genova, ha un Hinterland capace di alimentare volumi di questa dimensione. Protèsi con lo sguardo verso l’orizzonte marino, nella speranza di veder spuntare una megacarrier, i decisori hanno dimenticato di guardare alle spalle, verso l’entroterra, vera linfa vitale di un porto, tanto più ampia come catching area quanto più efficienti sono i servizi ferroviari di quel porto. In 10 anni i porti italiani hanno perduto il 50% del traffico ferroviario. Nemmeno Genova riuscirà a smaltire il traffico delle ULCC se non riesce a potenziare i suoi servizi ferroviari. Oggi dal VTE, il terminal di Voltri, più di 24 treni al giorno non possono entrare o uscire. Non è detto poi che, giunti a destino, possano entrare ovunque, nemmeno nell’area di Milano. I terminal, quelli buoni, di una certa capacità, sono una risorsa scarsa. Solo La Spezia e Trieste hanno aumentato sensibilmente la loro quota di traffico su rotaia, La Spezia supera il 24% e Trieste a fine 2012 avrà realizzato più di 3.900 treni di unità intermodali. Venezia, la sua rivale in Alto Adriatico, zero. Non è sbagliato potenziare i porti, è sbagliato farlo sotto l’ipnosi del gigantismo navale, è sbagliato aumentare la capacità senza aver allungato i tentacoli sui mercati potenziali del retroterra e costruito alleanze nelle filiere logistiche, è sbagliato puntare solo su container e crociere, trascurando tutto il resto. Ma su questi argomenti e sul rapporto tra portualità, gigantismo navale e crisi dello shipping, mi sarà necessario tornare con un secondo intervento.
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[1] Secondo la normativa tedesca tale dichiarazione mette in atto un procedimento d’insolvenza (Insolvenzverfahren) nel quale vengono esperiti i modi per soddisfare i diritti dei creditori di avvalersi sul patrimonio della società oppure se ne dichiara il fallimento (Pleite).

[2] „Schiffsbeteiligungen immer tiefer in der Krise“.

[3] Analisi critiche e vere e proprie ‘istruzioni per l’uso’ nei rapporti con i fondi sui siti degli studi d’avvocati specializzati nella difesa dei risparmiatori, v. in particolare “Erster Lloyd Fonds (LF) muss Insolvenz anmelden. Totalverlustrisiko: Anleger lassen Fondsausstieg prüfen“, su www.sommerberg-llp/sonderthema-lloyd/de del 28 febbraio 2012.

 [4]V. Comunicato stampa della banca del 18.6.2011, HSH Nordbank führt Ländergarantie weiter zurück.
 [5] „Krise der Schifffahrt trifft Anleger mit Wucht“, www.faz.net.

[6] I noli charter (charter rates) sono il prezzo che l’armatore (meglio sarebbe dire l’operatore) è disposto a pagare per noleggiare una nave, da non confondere con i noli di trasporto (freight rates), che sono il prezzo richiesto dall’armatore per trasportare un’unità di carico. In genere a scendere per primi sono i noli di trasporto che dopo alcuni mesi si trascinano dietro i noli charter. Questi ultimi a loro volta si dividono in noli per un solo viaggio o un periodo brevissimo (spot rates) e noli che sono stabiliti su contratti a lungo termine, pluriennali, tra la compagnia di navigazione e il proprietario. I primi sono pubblici, come le quotazioni di borsa, i secondi sono oggetto di contratti privati tenuti ben al riparo dagli occhi del concorrente.

[7] Wir gehen nicht davon aus, dass sich vor 2014 nachhaltig etwas verbessert. Es kann also auch 2015 oder 2016 werden
  [8] This will be the worst crisis to hit the liner industry since the start of the container era some 40 years ago, much of it could be blamed on the tax relief granted by a handful of governments with the focus on investing in ships, in Capacity cuts are just the start, “Lloyd’s List”, 16 ottobre 2012

 [9] Drewry Shipping Consultants, Ship operating costs. Annual Review and Forecats. Annual report 2012-2013 (ottobre 2012).

[10] Ivi.

[11] “La situazione dei noli nel Mediterraneo è la peggiore, con quelli spot crollati a meno di 750 dollari per Teu, quando sette mesi fa erano ancora sopra i 2.000 dollari”, “Lloyd’s List” del 3 dicembre 2012.

[12] „Lo shipping tedesco investito dalla crisi è troppo frammentato e spesso opera in maniera poco professionale. Le banche temono per i loro crediti e premono perché si facciano delle fusioni”, titola il “Financial Times Deutschland” del 4 settembre 2012.

[13] Rapporti periodici sullo stato dei fondi, i loro rendimenti medi ecc. vengono resi pubblici dal Verband Geschlossene Fonds e.V., www.vgf-online.de.

[14] Major ship lenders are leaving the business or shrinking their portfolios

84% of respondents expected there would be insolvencies among shipping companies during the next 12 months

Owners themselves are expecting dramatic changes

[15] Con l’esplosione dei traffici nel nuovo Millennio sono spuntati, soprattutto nel Far East, migliaia di nuovi operatori, la gran parte improvvisati, privi di mezzi finanziari, che spesso non conoscono le più elementari regole delle spedizioni internazionali via mare. Il porto di Rotterdam qualche anno fa fece sapere che circa il 10% dei container sbarcati annualmente non aveva la documentazione d’accompagnamento in regola. L’introduzione della figura di “operatore economico autorizzato” da parte delle dogane europee ha costituito un salutare filtro per bloccare l’avanzata di operatori improvvisati. Su questo v. il mio “Le multinazionali del mare”, Egea Editore, Milano 2010.

[16] Robert Yildirim, of Turkey’s Yildirim Group, also confirmed that he had blocked plans last year by Jacques Saadé, the Lebanon-born founder of the Marseilles-based line, to buy up to 20 large, new ships for use after the Panama Canal expands in 2015, “Financial Times”, 27 febbraio 2012. Yildrim ha portato la sua quota azionaria al 30% pochi mesi fa, evidentemente dopo aver avuto assicurazioni da parte del governo francese che la CMA CGM non sarebbe stata lasciata cadere, v. a questo proposito la sua intervista su http://www.youtube.com/watch?v=SVo5ZSwIwws.

[17] “CMA CGM introduces world’s biggest box ship”, “Lloyd’s List”, 9 novembre 2012.

[18] the trades seeing the greatest growth are the so called ‘emerging-to-emerging’ routes involving the North-to-South trades. However these trades carry only one-fourth of the volume of the main trades. Efficient operation on this developing trades is better suited to the smaller, more flexible vessels – the type of vessels from which carriers have been shifting away

[19] Qui si ragiona in termini “industriali”, se un impianto lavora molto al di sotto delle sue capacità perde dei soldi; ragionando in termini di finanziarizzazione la cosa cambia aspetto. Un concessionario, se gli si raddoppia la superficie del terminal con i soldi del contribuente, è ben felice di iscrivere in bilancio un valore della concessione molto superiore, pagherà un canone più alto ma ci avrà sempre guadagnato senza muovere un dito, avendo tra l’altro migliore accoglienza presso le banche, perché la sua capacità di garantire il credito è aumentata.

[20] Il governo Monti deve averle addirittura confuse le idee, se prende in considerazione i progetti per la costruzione di nuovi porti di transhipment.

15 dicembre: invitiamo a partecipare alla notte bianca della scuola pubblica organizzata dal coordinamento delle scuole di Terni




LA NOTTE BIANCA DELLA SCUOLA PUBBLICA

SABATO 15 DICEMBRE, CAFFE’ LETTERARIO BCT-PIAZZA DEL POPOLO
POMERIGGIO: 
16,00-17,00        ASSEMBLEA STUDENTI/DOCENTI 
17,00-19,00 IL BASTONE E LA CAROTA ANALISI E CRONACHE DELLE LOTTE PER LA DIFESA DELLA SCUOLA BENE COMUNE, interventi di:
·   
MOVIMENTO STUDENTI MEDI: come nasce un movimento; la scuola è la nostra;
·   
MOVIMENTO STUDENTI UNIVERSITARI riforma e tagli sull'Università Pubblica;.
-   MOVIMENTO DEI PRECARI DELLA SCUOLA: il grande taglio: Gelmini ed i 150.000 licenziamenti, Profumo di concorsaccio-truffa, precariato e lotte·   COORDINAMENTO DOCENTI SCUOLE PUBBLICHEle 24 ore ed il lavoro sommerso;L. 953 ovvero l’Aprea-Ghizzoni; invalsi e pillole: il sapere non e' un quiz; la scuola  non e' un'azienda.

19-21,00        READING SULLA SCUOLA:
                        Voci dal deserto    
Letture dal libro di Joe Schwarcz "Come si sbriciola un biscotto?


NOTTE: 
21,00-22,30        LEZIONI IN BIBLIOTECA: INSEGNANTI IN STRADA
Docenti delle scuole ternane tengono lezioni pubbliche, contro la privatizzazione del sapere e della scuola pubblica

                                                                                                  
22,30-24,00        MUSICA PER LA SCUOLA PUBBLICA
                        
band composte da studenti
suoni dal Conservatorio Briccialdi

17,00-19,30        L’ICEBERG SOMMERSO:CORREZIONE DI VERIFICHE ED ELABORATI  
Correzione pubblica di “compiti in classe” per mostrare il lavoro nascosto dei docenti. 

SPAZIO VIDEO DALLE ORE 18/20/22 FILM: 
video a cura del movimento studenti universitari: “Terni è una città universitaria o una città con l'Università?
FRAMMENTI DALLE SCUOLE E DALLE PIAZZE (A CURA DEL MOVIMENTO STUDENTI)
LA CLASSE - ENTRE LES MURS (DI LAURENT CANTET, 2008)
DIARIO DI UN MAESTRO (DI VITTORIO DE SETA, 1972);
ESSERE  E AVERE (DI NICOLAS PHILIBERT, 2002).

LA SCUOLA DI GUTEMBERG: BIBLIOGRAFIA RAGIONATA E MOSTRA DEI VOLUMI DELLA BCT SULLA SCUOLA PUBBLICA ED IL DIRITTO ALLA CONOSCENZA,

 A CURA DEL COORDINAMENTO SCUOLE TERNI E DELLA B.C.T.



Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), Roma 11 febbraio 1950


[Pubblicato in Scuola democratica, periodico di battaglia per una nuova scuola, Roma, iv, suppl. al n. 2 del 20 marzo 1950, pp. 1-5]

Cari colleghi,
Noi siamo qui insegnanti di tutti gli ordini di scuole, dalle elementari alle università [...]. Siamo qui riuniti in questo convegno che si intitola alla Difesa della scuola. Perché difendiamo la scuola? Forse la scuola è in pericolo? Qual è la scuola che noi difendiamo? Qual è il pericolo che incombe sulla scuola che noi difendiamo? Può venire subito in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po’ vero ed è stato detto stamane. Ma non è tutto qui, c’è qualche cosa di più alto. Questa nostra riunione non si deve immiserire in una polemica fra clericali ed anticlericali. Senza dire, poi, che si difende quello che abbiamo. Ora, siete proprio sicuri che in Italia noi abbiamo la scuola laica? Che si possa difendere la scuola laica come se ci fosse, dopo l’art. 7? Ma lasciamo fare, andiamo oltre. Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà [...].
La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola “l’ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue [...].
La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società [...].
A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità (applausi). Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.
Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia pure con una formula meno immaginosa. È l’art. 34, in cui è detto: “La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Questo è l’articolo più importante della nostra Costituzione. Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo. Seminarium rei pubblicae, dicevano i latini del matrimonio. Noi potremmo dirlo della scuola: seminarium rei pubblicae: la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente. Ora, se questa è la funzione costituzionale della scuola nella nostra Repubblica, domandiamoci: com’è costruito questo strumento? Quali sono i suoi principi fondamentali? Prima di tutto, scuola di Stato. Lo Stato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola pubblica. Prima di esaltare la scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima (applausi). Vedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l’accento su quel comma dell’art. 33 della Costituzione che dice così: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. Dunque, per questo comma […] lo Stato ha in materia scolastica, prima di tutto una funzione normativa. Lo Stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principi generali. Poi, immediatamente, lo Stato ha una funzione di realizzazione [...].
Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole ottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell’art. 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti. La scuola è l’espressione di un altro articolo della Costituzione: dell’art. 3: “Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali”. E l’art. 151: “Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di Stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni [...].
Quando la scuola pubblica è così forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Al diritto della famiglia, che è consacrato in un altro articolo della Costituzione, nell’articolo 30, di istruire e di educare i figli, corrisponde questa opportunità che deve essere data alle famiglie di far frequentare ai loro figlioli scuole di loro gradimento e quindi di permettere la istituzione di scuole che meglio corrispondano con certe garanzie che ora vedremo alle preferenze politiche, religiose, culturali di quella famiglia. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. La scuola privata, in altre parole, non è creata per questo.
La scuola della Repubblica, la scuola dello Stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre: (1) che lo Stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private a danno di altre. (2) Che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione. Solamente in questo modo e in altri più precisi, che tra poco dirò, si può avere il vantaggio della coesistenza della scuola pubblica con la scuola privata. La gara cioè tra le scuole statali e le private. Che si stabilisca una gara tra le scuole pubbliche e le scuole private, in modo che lo Stato da queste scuole private che sorgono, e che eventualmente possono portare idee e realizzazioni che finora nelle scuole pubbliche non c’erano, si senta stimolato a far meglio, a rendere, se mi sia permessa l’espressione, “più ottime” le proprie scuole. Stimolo dunque deve essere la scuola privata allo Stato, non motivo di abdicazione.
Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime. Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).
Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.
Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna di­scutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: (1) ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico! Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione [...]. Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito [...].
Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell’art. 33 della Costituzione fu messa questa disposizione: “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo Stato”. Come sapete questa formula nacque da un compromesso; e come tutte le formule nate da compromessi, offre il destro, oggi, ad interpretazioni sofistiche [...]. Ma poi c’è un’altra questione che è venuta fuori, che dovrebbe permettere di raggirare la legge. Si tratta di ciò che noi giuristi chiamiamo la “frode alla legge”, che è quel quid che i clienti chiedono ai causidici di pochi scrupoli, ai quali il cliente si rivolge per sapere come può violare la legge figurando di osservarla [...]. E venuta così fuori l’idea dell’assegno familiare, dell’assegno familiare scolastico.
Il ministro dell’Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari, disse: la scuola privata deve servire a “stimolare” al massimo le spese non statali per l’insegnamento, ma non bisogna escludere che anche lo Stato dia sussidi alle scuole private. Però aggiunse: pensate, se un padre vuol mandare il suo figliolo alla scuola privata, bisogna che paghi tasse. E questo padre è un cittadino che ha già pagato come contribuente la sua tassa per partecipare alla spesa che lo Stato eroga per le scuole pubbliche. Dunque questo povero padre deve pagare due volte la tassa. Allora a questo benemerito cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, per sollevarlo da questo doppio onere, si dà un assegno familiare. Chi vuol mandare un suo figlio alla scuola privata, si rivolge quindi allo Stato ed ha un sussidio, un assegno [...].
Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo pagare? È un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica. Per portare un paragone, nel campo della giustizia si potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i cittadini, hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l’arbitrato costa caro, spesso costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici pubblici l’arbitrato, di rivolgersi allo Stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri! [...]. Dunque questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le scuole dello Stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito [...].
Poi, nella riforma, c’è la questione della parità. L’art. 33 della Costituzione nel comma che si riferisce alla parità, dice: “La legge, nel fissare diritti ed obblighi della scuola non statale, che chiede la parità, deve assicurare ad essa piena libertà, un trattamento equipollente a quello delle scuole statali” [...]. Parità, sì, ma bisogna ricordarsi che prima di tutto, prima di concedere la parità, lo Stato, lo dice lo stesso art. 33, deve fissare i diritti e gli obblighi della scuola a cui concede questa parità, e ricordare che per un altro comma dello stesso articolo, lo Stato ha il compito di dettare le norme generali sulla istruzione. Quindi questa parità non può significare rinuncia a garantire, a controllare la serietà degli studi, i programmi, i titoli degli insegnanti, la serietà delle prove. Bisogna insomma evitare questo nauseante sistema, questo ripugnante sistema che è il favorire nelle scuole la concorrenza al ribasso: che lo Stato favorisca non solo la concorrenza della scuola privata con la scuola pubblica ma che lo Stato favorisca questa concorrenza favorendo la scuola dove si insegna peggio, con un vero e proprio incoraggiamento ufficiale alla bestialità [...].
Però questa riforma mi dà l’impressione di quelle figure che erano di moda quando ero ragazzo. In quelle figure si vedevano foreste, alberi, stagni, monti, tutto un groviglio di tralci e di uccelli e di tante altre belle cose e poi sotto c’era scritto: trovate il cacciatore. Allora, a furia di cercare, in un angolino, si trovava il cacciatore con il fucile spianato. Anche nella riforma c’è il cacciatore con il fucile spianato. È la scuola privata che si vuole trasformare in scuola privilegiata. Questo è il punto che conta. Tutto il resto, cifre astronomiche di miliardi, avverrà nell’avvenire lontano, ma la scuola privata, se non state attenti, sarà realtà davvero domani. La scuola privata si trasforma in scuola privilegiata e da qui comincia la scuola totalitaria, la trasformazione da scuola democratica in scuola di partito.
E poi c’è un altro pericolo forse anche più grave. È il pericolo del disfacimento morale della scuola. Questo senso di sfiducia, di cinismo, più che di scetticismo che si va diffondendo nella scuola, specialmente tra i giovani, è molto significativo. È il tramonto di quelle idee della vecchia scuola di Gaetano Salvemini, di Augusto Monti: la serietà, la precisione, l’onestà, la puntualità. Queste idee semplici. Il fare il proprio dovere, il fare lezione. E che la scuola sia una scuola del carattere, formatrice di coscienze, formatrice di persone oneste e leali. Si va diffondendo l’idea che tutto questo è superato, che non vale più. Oggi valgono appoggi, raccomandazioni, tessere di un partito o di una parrocchia. La religione che è in sé una cosa seria, forse la cosa più seria, perché la cosa più seria della vita è la morte, diventa uno spregevole pretesto per fare i propri affari. Questo è il pericolo: disfacimento morale della scuola. Non è la scuola dei preti che ci spaventa, perché cento anni fa c’erano scuole di preti in cui si sapeva insegnare il latino e l’italiano e da cui uscirono uomini come Giosuè Carducci. Quello che soprattutto spaventa sono i disonesti, gli uomini senza carattere, senza fede, senza opinioni. Questi uomini che dieci anni fa erano fascisti, cinque anni fa erano a parole antifascisti, ed ora son tornati, sotto svariati nomi, fascisti nella sostanza cioè profittatori del regime.
E c’è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto. È accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d’Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell’avvenire. Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale.

MORTI SUL LAVORO NEI PRIMI 11 MESI DEL 2012

domenica 9 dicembre 2012 · Posted in


Sono a darvi la situazione delle morti sul lavoro nei primi 11 mesi dell'anno.
Stupisce ma è il Trentino Alto Adige con lo 0,0000202, la regione con più morti sul lavoro in rapporto al numero di abitanti.
Seguono l'Abruzzo, la Val D'Aosta, la Calabria e l'Emilia Romagna.
Le migliori Puglia, Campania e Lazio che ha con lo 0,0000047 ha il rapporto più basso. 
Sul sito http://cadutisullavoro.blogspot.com le cartine geografiche dei morti sui LUOGHI DI LAVORO in ogni provincia e regione e il rapporto il rapporto morti sul lavoro e popolazione di ogni regione. 
Carlo Soricelli curatore dll'Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro.

Dal primo gennaio ad oggi 1 dicembre sono morti SUI LUOGHI DI LAVORO 587 lavoratori (tutti documentati). Sono oltre 1.100 dall'inizio dell'anno se si aggiungono i lavoratori deceduti in itinere e sulle strade. L'Osservatorio considera “morti sul lavoro” tutte le persone che perdono la vita mentre svolgono un'attività lavorativa, indipendentemente dalla loro posizione assicurativa e dalla loro età. Molte vittime non hanno nessuna assicurazione e muoiono lavorando in “nero”.
I MORTI SUI LUOGHI DI LAVORO PER CATEGORIA
Il 35,5 % delle vittime sono in agricoltura, di questi la maggioranza schiacciate dal trattore (oltre 100 dall'inizio dell'anno). Edilizia 28,4% sul totale, in questa categoria quasi il 30% delle morti è causata da cadute dall’alto. Industria 11,8%, quest'anno molte di queste morti sono state provocate dal terremoto in Emilia. Servizi 5,8%. Autotrasporto 6,6%, Il 3% Esercito Italiano (Afghanistan). Il 2,7% nella Polizia di Stato (tutte le morte causate in servizio sulle strade). Il 13,3% dei morti sui luoghi di lavoro sono stranieri.
ETA' DELLE VITTIME
Il 4,9% hanno meno di 29 anni, dai 30 ai 39 anni il 14,1%, dai 40 ai 49 anni il 24,48%, dai 50 ai 59 anni il 15,7%, dai 60 ai 69 anni il 9,5%, il 12,8% ha oltre 70 anni. Del 16,5% non siamo a conoscenza del’età.
MORTI SUI LUOGHI DI LAVORO NELLE REGIONI E PROVINCE
L'unico parametro per le morti sul lavoro ritenuto valido per l'Osservatorio, nella valutazione dell'andamento di una provincia e di una regione, è il rapporto tra il numero di morti e la popolazione residente. Gli altri parametri, se non quelli della professione, dell'età e della nazionalità non hanno nessuna importanza al fine della prevenzione e delle statistiche.
La Lombardia ha 73 morti e la provincia di Brescia con 20 morti risulta prima in questa triste classifica, come negli ultimi anni Brescia è sempre ai vertici delle province con più morti sui luoghi di lavoro, provincia di Bergamo 11 morti, di Varese 9 morti, di Milano 6, di Pavia e Lodi 5, di Monza 3, di Como e Lecco 2, di Mantova 5, di Sondrio 4. Emilia Romagna 60 morti compresi i lavoratori deceduti sotto le macerie del terremoto del 20 e 29 maggio, province di Modena 18 morti, di Ferrara 9, di Bologna 8, Reggio Emilia 7 morti, Piacenza 5 morti, Forlì Cesena 4 morti, Parma 3 morti, Ravenna e Rimini 3 morti.Piemonte 38 morti, la provincia di Torino risulta in questo momento con 19 vittime la prima in Italia assieme a quella di Brescia per numero di morti sui luoghi di lavoro, provincia di Cuneo 8 morti, 3 morti in provincia di Alessandria e Novara, 2 morti ad Asti e Vercelli, 1 morto Verbania. Sicilia 42 morti, provincia di Catania 10 morti, di Trapani 6 morti, di Palermo e Caltanisetta 5 morti, Agrigento e Messina 4 morti, Siracusa e Ragusa 3 morti, Enna e Agrigento 2 morti. Campania 38 morti, provincia di Salerno 12 morti, di Avellino 10 morti, Benevento 9 morti, Napoli 6 morti, Caserta 1 morto. Toscana 36 morti (44 con i morti in mare sulla Costa Concordia affondata sulle coste dell' isola del Giglio), dei due fratelli del peschereccio affondato al largo di Livorno e di un sub), la provincia Firenze e di Pisa 6 morti, Arezzo, Grosseto e Livorno 5 morti, Massa Carrara 4 morti, 3 morti Lucca, Siena e Prato 1 morto. Veneto 40 morti con le provincia di Verona 10 morti, di Padova 8 morti, di Treviso e Belluno 6 morti, di Vicenza 5 morti, Rovigo e Venezia 3 morti. Abruzzo 27 morti con la province di Chieti con 12 morti, di Pescara 8 morti, Teramo 4 morti, L’Aquila 3 morti. Lazio 27 morti provincia di Roma 11 morti, di Frosinone 7 morti, Viterbo 5 morti, Latina 4 morti. Puglia 26 morti, provincia di Bari 12 morti, Brindisi 6 morti, Foggia 5 morti, Lecce 2 morti, Taranto e Bat 1 morto. Calabria 23 morti, provincia di Cosenza e di Reggio Calabria 6 morti, di Catanzaro 4 morti, Vibo Valentia e Crotone 3 morti. Trentino Alto Adige 21 morti, provincia di Bolzano 12 morti, di Trento 9 morti. Liguria 18 morti, provincia di Genova 9 morti, di Savona 5 morti, Imperia e La Spezia 2 morti. Friuli Venezia Giulia 13 morti, provincia di Pordenone e Udine 4 morti, di Gorizia 3 morti, Trieste 2 morti. Marche 12 morti, provincia di Ancona 6 morti, Macerata 3 morti, Ascoli Piceno 2 morti, Pesaro Urbino 1 morto. Umbria 10 morti, provincia di Perugia 9 morti, di Teramo 1 morto. Sardegna 14 morti, 5 morti nella provincia di Oristano, 4 in quella di Nuoro , Medio Campisano 2 morti, 1 morto Carbonia Iglesias, Ogliastra, Cagliari e Sassari. Basilicata 7 morti, 4 morti nella provincia di Matera, di Potenza 3 morti. Molise 4 morti, provincia di Campobasso 3 morti, 1 morto in provincia di Isernia. Val D'Aosta, Aosta 2 morto.
Non sono segnalati a carico delle province i lavoratori morti sul lavoro che utilizzano un mezzo di trasporto e i lavoratori deceduti in autostrada: agenti di commercio, autisti, camionisti, ecc. e lavoratori che muoiono nel percorso casa-lavoro/lavoro-casa. La strada può essere considerata una parentesi che accomuna i lavoratori di tutti i settori e che risente più di tutti gli altri della fretta, della fatica, dei lunghi percorsi, dello stress e dei turni pesanti in orari in cui occorrerebbe dormire, tutti gli anni sono percentualmente dal 50 al 55% di tutti i morti sul lavoro. Purtroppo è impossibile sapere quanti sono i lavoratori pendolari sud-centro nord, centro-nord sud, soprattutto edili meridionali che muoiono sulle strade percorrendo diverse centinaia di km nel tragitto casa-lavoro, lavoro-casa. Queste vittime sfuggono anche alle nostre rilevazioni, come del resto sfuggono tanti altri lavoratori, soprattutto in nero o in grigio che muoiono sulle strade. Tutte queste morti sono genericamente classificate come "morti per incidenti stradali"
Nel 2011 ci sono stati più di 1.170 morti, di cui 663 sui luoghi di lavoro + 11,6% sul 2010. Per approfondimenti sui lavoratori morti per infortuni sul lavoro nel 2011 andare nella pagina dell'1-1 e 3-1 del 2011 dell'Osservatorio. Ci sono cartine geografiche con il numero di morti sui luoghi di lavoro per ciascuna provincia italiana e grafici inerenti all'età, professione e nazionalità dei lavoratori vittime d'infortuni mortali.
DALL’1 GENNAIO AL 30 NOVEMBRE SONO MORTI SUI LUOGHI DI LAVORO IN ITALIA 583 LAVORATORI.

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