The School of the Future? An
already old project. At the origins of the Nrp
di Giovanni Carosotti
Premessa
Uno dei tanti meriti dello studio di
Gert Biesta1,
recentemente tradotto in Italia, è stato quello di avere fatto
chiarezza sull’uso strumentale e ideologico delle espressioni
di «innovatore» e «conservatore»,
relativamente alle scelte metodologico-didattiche sostenute dalle
politiche di riforma della scuola in Occidente negli ultimi due
decenni. Il principale riferimento per legittimare la nuova politica
scolastica, considerato in sé una garanzia di innovazione,
è senz’altro la tecnologia digitale; l’inevitabilità di un suo
utilizzo sempre più invasivo (con le implicite e indubbie comodità
che esso arreca a diverse pratiche), nonché la dimestichezza (sia
pure solo superficiale e in molti casi orientata comunque a una
logica di consumo) delle giovani generazioni con tali tecnologie,
fanno sì che la digitalizzazione
integrale si
presenti come un’evoluzione scontata del modo di realizzare il
processo formativo. E portino a considerare
come «conservatrice» qualsiasi
posizione che esprima dubbi rispetto a questa onni-pervasività.
È interessante
analizzare con una certa profondità l’argomentazione che fa da
supporto a tale pretesa. Essa non vuole porre l’orizzonte digitale
in relazione a un progresso di carattere tecnologico, per quanto
incomparabilmente superiore dal punto di vista qualitativo a quelli
precedenti. Sotto certi aspetti, gli strumenti informatici
(ovviamente il software e
non l’hardware)
non vengono considerati neanche un prodotto dell’evoluzione
tecnologica, proprio per evitare che li si possa relegare a una
funzione puramente strumentale, sia pure estremamente raffinata;
rispetto alla quale la soggettività mantiene un decisivo controllo
sui processi decisionali, e quindi cognitivi. Risulta evidente che,
se il digitale venisse concepito nell’orizzonte della
strumentalità, esso si rivelerebbe un mezzo sicuramente efficiente,
in coerenza con gli obiettivi di chi lo intende utilizzare; nel caso
della pratica d’insegnamento, come facilitatore di alcuni processi
quali la consultazione di dati e fonti, la comunicazione secondo
modalità diversificate di alcune informazioni, con maggiore
precisione e rapidità, e così via.
Da alcuni anni, invece, si afferma con
sicurezza, e in modo particolarmente radicale nel recente Pnrr, che
la digitalizzazione rappresenta un nuovo modello cognitivo, destinato
a ripensare totalmente metodologie e finalità dell’azione docente.
Conviene provare allora a seguire l’imporsi di questa convinzione
intellettuale in parallelo con il processo storico riformatore, che
ha portato a trasfigurare la scuola italiana; un processo storico di
poco meno di trent’anni, che ha inizio con l’entrata in vigore
della Legge
sull’autonomia scolastica e
con la pubblicazione dei principali documenti fondativi relativi
all’istruzione dell’Unione europea2.
Un periodo relativamente breve, ma di cui è già possibile proporre
un bilancio storico; non tanto per seguire in modo nozionistico il
succedersi dei singoli provvedimenti, ma per valutare come già più
di due decenni fa ci si era prefissi quanto il Pnrr (che, da questo
punto di vista rappresenta tutt’altro che una novità) intende
realizzare in modo definitivo. La subordinazione della scuola a
logiche economiche di valorizzazione del valore, sfruttando come
fonte di ulteriore legittimazione il principio della digitalizzazione
integrale.
1.
Il passaggio di secolo: dai videogames alle prime classi
virtuali
A dire il vero, l’idea che le nuove
tecnologie potessero costituire una sorta di grimaldello per forzare
la trasformazione della scuola secondo logiche estranee alla
consapevolezza di buona parte degli insegnanti, era presente già
nelle teorizzazioni degli anni Novanta. Per rendere convincente la
nuova immagine della scuola, bisognava innanzitutto far credere a
un’opinione pubblica non esperta che essa avrebbe prodotto un
deciso progresso dei processi di apprendimento nei giovani, capace di
meglio assicurare una loro affermazione in ambito lavorativo, una
volta compiuto il percorso scolastico. Una motivazione che faceva
indubbia presa, in particolare a causa della sempre più persistente
crisi economica e alla crescente disoccupazione giovanile, stante la
preoccupazione di molte famiglie sull’estensione di lavori precari,
a basso salario, cui sembravano destinati i loro figli. È stata
così avviata un’azione di condizionamento antropologico
decisamente più stringente che, dopo più di due decenni, ha
sicuramente iniziato a produrre i risultati sperati da chi quella
strategia l’aveva concepita. Ovvero far sì che l’obiettivo primo
della scuola sia proprio orientare la personalità discente verso un
modello antropologico corrispondente all’homo
oeconomicus, che
individui i valori più desiderabili dell’esistenza nella massima
produttività e che indentifichi la realizzazione di sé con la
possibilità di consumo. Riferimento antropologico\valoriale per
eccellenza diventa così la figura dell’imprenditore, colui cioè
che è capace di mettere a valore le proprie doti; non a caso,
l’educazione
all’imprenditorialità3,
così come il concetto di capitale
umano4, è
uno dei pilastri della nuova teoria pedagogica. Come corollario,
l’impresa diventa il modello ideale di comunità, che valorizza il
lavoro associato ma nello stesso tempo eterodiretto e fortemente
competitivo. Una visione del mondo (non solo della formazione) che
restringe il campo di ciò che vale la pena apprendere a ciò che
utile, immediatamente spendibile sul piano pratico, in grado di
produrre vantaggi materiali, quasi sempre di tipo stipendiale; e che
nulla ha a che spartire con le principali finalità dell’azione
formativa, nonché estranea ai processi di carattere spirituale che
la dimensione educativa inevitabilmente implica.
Questa azione di condizionamento, per
essere condotta con successo, trovava un utile supporto in quelle
possibilità già allora prospettate dalla tecnologia digitale. Non
ancora la rete, ma quelle realtà tecnologiche (creazione di CD,
videogiochi) le quali, viste con gli occhi di oggi, sembrano quasi
risalire a un’epoca preistorica. Ricordare quel primo tentativo
risulta interessante; venne allora inaugurata quella strategia
retorica, di dubbia correttezza deontologica, che faceva
surrettiziamente riferimento all’esperienza ludica; contraddicendo
tutte le analisi preoccupate di chi valutava l’abuso del tempo di
vita passato dagli adolescenti davanti ai videogiochi, responsabili
anche di regressi sul piano cognitivo (in particolare la mancanza di
concentrazione), si pontificava sui notevoli vantaggi per
l’apprendimento, con affermazioni irresponsabili, che volevano però
presentarsi come provocatorie e progressiste5.
Si tratta anche in questo caso di una strategia comunicativa
efficace, in grado di sedurre gli alunni perché istituisce
un’identità tra attività di studio e attività ludica,
promettendo di acquisire un sapere utile a conseguire soddisfazioni
di carattere materiale senza sforzo. L’aspetto interessante è che
tali capacità sarebbero poi assunte in modo indiretto; si conduce
un’attività piacevole, si crede in qualche modo di giocare, ma in
realtà si apprendono inconsapevolmente modalità di azione richieste
per lo più in ambito lavorativo. La centralità
delle competenze rispetto
alle conoscenze sta
proprio in questo; si deve conoscere, con il minor sforzo possibile e
in uno stato di ipotetica piacevolezza, solo ciò che serve a porci,
sul piano dell’azione, nella capacità di rispondere efficacemente
a richieste che ci provengono dal mondo esterno, quasi tutte da
ambiti economici. Il criterio dei contenuti da selezionare fa allora
quasi esclusivo riferimento a future richieste di prestazione6.
Si tratta di una volta storica: il possesso di contenuti di cultura,
sia di area umanistica come scientifica, con tutto ciò che essi
permettono di conseguire sul piano della formazione di un sapere
critico, non sono più identificati con un reale processo di
emancipazione, il quale ha senso solo se il soggetto che si emancipa
è in grado, in virtù di quanto acquisito, di porre in essere
progetti di trasformazione, sulla base di critiche razionali
concepite nei confronti del proprio presente. L’emancipazione per i
riformatori sta invece nel rispondere in modo efficiente alle
richieste di un sistema che non può essere messo in discussione;
che, riprodotto all’interno della scuola nella sua struttura
organizzativa e nel suo universo valoriale-competitivo, viene esse
stesso presentato come legittimo e intrasformabile. Di conseguenza, i
contenuti di cultura possono essere conosciuti solo se inseriti in
una struttura comunicativa (p.es. l’Unità didattica di
apprendimento) che ne circoscriva i contenuti, o meglio li diriga
verso obiettivi prefissati, che non rendono di fatto possibile
un’interpretazione pluralistica (in quanto subordinati
all’acquisizione di abilità pratiche), e quindi impedendo un uso
critico della propria intelligenza.
2.
Il salto di qualità con la “Buona scuola”: i Piani nazionali
della Scuola digitale
Fino
al 2015, anno in cui viene approvata la legge 107, più nota
come “Buona
scuola”,
la pervasività del digitale nella vita quotidiana aveva subito un
vistoso salto di qualità. In virtù di questa evoluzione, quella
legge poteva finalmente imporre il principio per cui l’utilizzo di
tali possibilità in ambito didattico non fosse sufficiente se,
contemporaneamente, non si procedeva a un cambio del paradigma
educativo. Per comprendere il valore strumentale di questo
riferimento, sarà bene avere presente la funzione storica che la
legge 107 si assumeva e che oggi, a più di sette anni di distanza, è
possibile delineare con più precisione. La “Buona
scuola” ha
rappresentato un formidabile dispositivo che intendeva presentarsi
come un piano di assoluta innovazione e rivoluzione della vita
scolastica, attraverso l’uso populista di slogan di estrema
semplificazione, ma capaci di imprimersi nell’immaginario
dell’opinione pubblica; in realtà, essa non faceva altro –
approfittando di una fase storica in cui l’esecutivo si è trovato
a esercitare una capacità di azione priva di opposizioni con pochi
precedenti nella storia della Repubblica – che imporre sul piano
normativo in modo definitivo quella svolta regressiva inauguratasi
con l’introduzione dell’autonomia
scolastica e
con le scelte politiche introdotte dal ministro Berlinguer. Sul piano
dei contenuti non vi era alcuna novità, se non una sistematizzazione
organica di varie esperienze di discutibili sperimentazioni,
introdotte in modo più o meno saltuario nel corso dei ministeri
precedenti, e che ora diventavano principio direttivo e coattivo,
verso il quale piegare l’attività degli insegnanti.
Un
proposito che non si è avverato, per un doppio ordine di motivi:
l’opposizione ancora massiccia e consapevole degli insegnanti, che
prima dell’approvazione della legge reagirono con una straordinaria
mobilitazione che coinvolse l’80 per cento della categoria, e che
ancora negli anni successivi fece resistenza all’introduzione
coatta di novità metodologiche della cui inconsistenza formativa si
aveva piena coscienza; dall’altra, per l’impraticabilità
effettiva di certe idee di didattica concepite secondo una logica di
totale astrazione, per lo più derivate da un’impostazione
cognitivista, che non reggevano a una effettiva traduzione sul piano
empirico.
Alla fine di quello stesso anno il
MIUR pubblicò un documento intitolato “Piano nazionale Scuola
digitale”7,
che per la prima volta in modo sistematico intendeva sostenere come
il digitale rappresentasse non solo un valido supporto per una
variazione significativa della comunicazione didattica, bensì esso
stesso un modello cognitivo e di apprendimento sul
quale «sintonizzare» le
menti sia degli allievi sia dei docenti. Conviene forse ricordare che
la legge 107 si proponeva tre obiettivi principali (a nostro parere
regressivi), tutti in qualche modo finalizzati a rendere prioritaria
la dimensione digitale quale paradigma di conoscenza: bisognava
potenziare, all’interno del processo formativo, tre particolari
ambiti: quello linguistico, il pensiero computazionale e la
dimensione della digitalità. Tali obiettivi formativi non dovevano
essere declinati in riferimento alle diverse discipline, bensì porsi
come una nuova tecnica di trasmissione del sapere, che diventava essa
stessa il vero obiettivo della comunicazione didattica, a scapito dei
contenuti studiati, ridotti a puro pretesto per l’acquisizione di
tali competenze. Attraverso un procedere argomentativo tanto vago
quanto superficiale, si pretendeva – senza corroborare in alcun
modo tale affermazione – di introdurre una didattica
finalmente «aperta» e «inclusiva»,
grazie proprio alla dimensione digitale, che avrebbe permesso,
secondo questa concezione, di «sviluppare competenze attraverso la
pratica e, contemporaneamente, produrre soluzioni di impatto»,
qualunque cosa questa terminologia volesse significare. Con
espressioni sempre più criptiche ed autoreferenziali, il documento
aveva l’ambizione di coinvolgere anche valutazioni di ordine etico,
quando definiva un nuovo modello di conoscenza, con un linguaggio
quasi da science
fiction:
è
«alfabeto» del nostro tempo una
nuova sintassi, tra pensiero logico e creativo, che forma il
linguaggio che parliamo con sempre più frequenza nel nostro tempo;
è, infine, ad un livello più alto, agente attivo dei grandi
cambiamenti sociali, economici e comportamentali, di economia,
diritto e architettura dell’informazione, e che si traduce in
competenze di cittadinanza digitale essenziali per affrontare il
nostro tempo8.
Non è difficile capire, dietro tale
esprimersi esoterico, che dalla pratica formativa venivano lasciate
fuori procedure essenziali, irriducibili alla logica del puro
calcolo. Paradossalmente, è proprio nell’ambito dell’istruzione
tecnica che tale approccio dimostra non solo la propria
insufficienza, ma anche la propria natura ideologica. Se infatti tale
indirizzo di studi viene finalizzato esclusivamente alla soluzione di
problemi operativi, magari legati alle attività produttiva più
diffuse nel territorio in cui l’Istituto è collocato, si rischia
di vincolare il sapere dell’alunno a pratiche che potrebbero
diventare obsolete nel giro di qualche anno. Oltre al fatto – e qui
sta l’aspetto ideologico – che non lo si rende cosciente dei
criteri dell’organizzazione d’impresa, mantenendolo in una
condizione sia pratica sia intellettuale subordinata, incapace di
formarsi una coscienza civile e politica del senso del proprio lavoro
e della possibilità di avanzare rivendicazioni per migliorarne le
condizioni9.
Ma la grande novità del documento, in realtà preceduta da altre
affermazioni simili nel testo di legge, stava nel fatto che tale
azione sulla soggettività dell’alunno veniva estesa anche alla
classe docente, attraverso un’operazione retorica di dubbio
effetto. Gli estensori del documento – molti dei quali dovrebbero a
nostro parere dimostrare le ragioni per cui si arrogano del titolo di
esperti di scuola e di didattica, nonché di processi cognitivi –
spacciavano quella prosa evasiva e supponente di cui abbiamo offerto
qualche esempio come prova del loro essere competenti, annunciatori
di una nuova fase della scienza pedagogica in cui è stato validato
scientificamente un procedere metodologico che, se attuato, è in
grado di raggiungere i risultati attesi, ovviamente sempre formulati
nei termini di «competenza».
Gli insegnanti, allora, risultavano formati su criteri ormai
obsoleti, liquidati proprio da questo progresso sul piano cognitivo,
e avrebbero avuto l’obbligo deontologico di aggiornarsi, accettando
di perdere la loro autonomia decisionale, e seguendo più o meno
pedissequamente le procedure indicategli da chi era più esperto di
loro.
3.
Venti mesi dopo
Questo primo documento non deve avere
avuto particolare successo, se venti mesi dopo ne è stato licenziato
un altro, dal titolo Ecco
la nuova vita del Piano Scuola digitale10.
Dopo avere presentato un piano d’investimenti tanto ambizioso
quanto destinato a non poter essere attuato, la seconda parte
giungeva ad affermare come la condizione per rendere produttivo
l’investimento era che i docenti utilizzassero questo patrimonio
secondo ben precisi criteri metodologici fondati dall’assunto,
sopra già ricordato, che la dimensione digitale rappresenta una
forma d’apprendimento superiore, su cui modellare il percorso
didattico, facendo aderire a essa sia la personalità intellettuale
del discente come quella del docente. Si tratta di «invertire
la narrativa»
Detto più esplicitamente: la musica deve cambiare e l’innovazione
deve entrare in ogni classe, deve essere il kernel della
nuova scuola, attraverso una serie di azioni sistemiche («formazione
di qualità»,
studio di metodologie «concretamente
applicabili in ogni classe»,
«piattaforma degli
innovatori») che
permetterebbero addirittura di «dare
struttura permanente, scientificamente validata alla frontiera
dell’innovazione».
Grida vendetta l’ingiustificato richiamo alla «validazione
scientifica», strategia retorica per far credere che le intenzioni
metodologico-didattiche siano in qualche modo confermate da verifiche
empirico-sperimentali, in realtà mai attuate, ma dedotte
dogmaticamente –
e con inferenze spesso dubbie – da teorie psicologiche di origine
cognitivista che non godono affatto del consenso dell’intera
comunità degli studiosi. Risulta evidente come una simile retorica
abbia l’obiettivo di rifiutare a priori qualsiasi confronto
critico, delegittimato di per sé quale mera opinione rispetto a
teorie scientifiche di ben diverso spessore epistemologico; una
pretesa assolutamente ingiustificata, ma che può contare su
un’accondiscendenza politica, in quanto trova spazio e
legittimazione sugli organi più influenti della stampa generalista,
e presso le associazioni che si occupano di scuola (Anp, Fa), e che
non permettono a un serio confronto scientifico di avere luogo.
4.
Dalla «società della conoscenza» al Pnrr
Nell’attuale fase della politica
scolastica, rappresentata al meglio dal Pnrr, la spinta verso
l’integrale digitalizzazione del processo formativo trova base
teorica in quell’espressione nota come società
della conoscenza,
società dove la stessa strumentazione (che non sarebbe più
opportuno denominare in questo modo) tecnologica produce sapere,
indipendentemente dalla stessa intelligenza umana, secondo modalità,
se non superiori, quanto meno con maggiore rapidità. La società
della conoscenza si
fonda sulla «diffusione gigantesca delle macchine informatiche» e
sulla loro «capacità enorme di processare»,
resa ormai esterna e indipendente dalla mente umana. Processo che
«concluderebbe […] una dimensione antropologica del conoscere,
fondata sulla centralità della mente umana, per inaugurare un tipo
di sapere che dipenderà sempre più da dispositivi automatici»11.
Risulta chiaro come una simile convinzione vada a rafforzare
quell’obiettivo politico formulato ormai quasi trent’anni fa,
ovvero ridurre i processi di apprendimento al rispetto di una
procedura che rende superflua la libera decisione del soggetto che
insegna. E, come ogni profezia destinata ad autoavverarsi, intende in
fondo ribadire e rendere inevitabile quella direzione politica
regressiva, che fa riferimento alla didattica
per competenze,
teorizzata molti anni prima che la rete dominasse in modo così
capillare la vita quotidiana di ogni individuo.
A noi sembra evidente di trovarci di
fronte a una colossale costruzione ideologica. Ma, se così è,
qual è l’obiettivo che essa si pone? Va da sé, da una parte, che
da essa non scaturire se non un sapere uniforme, inevitabilmente anti
pluralistico (a meno che non si intenda con pluralistico, furbamente,
il moltiplicarsi dei problemi settoriali specifici, di una didattica
che li affronta singolarmente eludendo il momento della sintesi e
dell’universalità); in questo modo essa realizza un potente
processo di soggettivazione, che ha come fine impedire
l’emancipazione, sul terreno socio-politico, degli intelletti degli
alunni. Questo perché tale impostazione non sviluppa quelle capacità
in grado di formulare una critica sistemica, per esempio delle regole
che presiedono al mercato del lavoro, e che destina buona parte degli
attuali alunni a un futuro di precarietà permanente. Sulla base
di questi significativi riferimenti, è facile comprendere come non
assistiamo affatto a una nuova rivoluzione scientifica e tecnologica,
ma a un’azione politica quanto mai cinica, che utilizza imposture
intellettuali per far passare una linea coerente con ben determinate
intenzioni politiche; le quali si ripromettono un controllo della
didattica e un disciplinamento dei docenti, rispetto ai quali il
digitale e niente più che una strategia.
Sulla base di tali valutazioni risulta
più agevole comprendere l’intentio del
Pnrr, per quanto riguarda i provvedimenti relativi alla scuola. Di
per sé nulla di nuovo rispetto al precedente della legge 107: anche
in questo caso, infatti, l’obiettivo è di approfittare di una
condizione di emergenza per condurre a definitivo compimento
quell’idea di scuola ormai datata, e i cui esiti fallimentari sono
ormai evidenti, nonostante il silenzio della stampa più compiacente.
Peraltro, nei diversi documenti che illustrano tali interventi, è
utilizzata la stessa strategia retorica, che spaccia come un processo
d’innovazione e di modernizzazione, ormai irrinunciabile proprio
per la sua evidenza scientifica, la riproposizione di quanto
teorizzato negli ultimi venticinque anni. Il Pnrr si propone12,
attraverso un flusso di finanziamenti eccezionali giunti a ogni
singolo istituto, di rinnovare radicalmente gli spazi di
apprendimento, rendendoli, secondo un lessico che abbiamo imparato a
conoscere, più «innovativi».
Ma, al di là di un rinnovamento del materiale informatico certo
auspicabile – ma che, viste le dimensionalità della scuola, non
potrà più di tanto essere decisivo; e comunque anch’esso
destinato a una veloce obsolescenza nel giro di pochi anni – le
scuole sono costrette a fare proprie una serie di condizionalità che
vanno a pregiudicare anche le metodologie didattiche con cui
s’intendono impiegare le nuove risorse informatiche. Al di là del
fatto che alcune di queste metodologie è dubbio che possano dare il
meglio di sé attraverso la comunicazione digitale13,
risulta problematico tale consenso preventivo con la sostanza
dell’articolo 33 della Costituzione. Tant’è che in molti Collegi
dei Docenti il progetto è stato approvato, facendo aggiungere al
verbale precisazioni sul fatto che la decisione in merito alle
metodologie didattiche spetta in modo sovrano ai docenti. Sicuramente
una contrapposizione che, se portata all’estremo, dovrà dare luogo
a contenziosi anche sul piano giuridico.
Poiché
nel dettaglio non c’è nulla di diverso rispetto
alle «buone» pratiche
già suggerite decenni fa, il Pnrr sembra voler portare a più
efficiente compimento quel progetto di soggettivazione cui abbiamo
fatto riferimento. Esso dovrebbe attuarsi in due fasi: da una parte,
attraverso la riduzione del sapere a pratica, misconoscendone
l’impostazione teorica, e impedendo l’accesso dello studente a un
reale sapere interpretativo, in grado di porlo in condizioni di
effettuare un’eventuale critica di carattere universalistico, cioè
sistemico; dall’altra facendo proprio l’universo
edonistico-consumistico del mercato, il cui bagaglio simbolico è
particolarmente diffuso tra le giovani generazioni, per convincere
che lo stesso rappresenta la migliore qualità dell’esistenza, e
per confortare un atteggiamento di rifiuto pregiudiziale verso forme
di studio e di accostamento alla cultura ritenute ormai da
archiviare.
Una
scuola democratica, pluralista, aderente ai valori autentici di una
cultura progressista non può che rifiutare una tale impostazione e
combattere tale processo.
Note
1 Gert
J.J. Biesta, Riscoprire
l’insegnamento, Milano,
Raffaello Cortina Editore, 2022.
2 Cfr.
legge n. 59/97 e D.P.R. n. 275/99. Per quanto riguarda i documenti
europei, cfr. il rapporto pubblicato nel 1996 dalla commissione
dell’UNESCO coordinata da Jacques Delors, di cui il rapporto porta
il nome; nonché il Processo
di Bologna, documento
approvato da 29 ministri dell’istruzione europei a Bologna nel
giugno 1999 e il documento (Strategia
di Lisbona) approvato a
Lisbona nel marzo 2000.
3 Cfr.
Il Sillabo per
l’Educazione all’Imprenditorialità nella Scuola superiore,
sul portale del
MIUR, https://www.miur.gov.it/-/pubblicato-il-sillabo-per-l-educazione-all-imprenditorialita-nella-scuola-secondaria- ,
ultima consultazione: 28 dicembre 2022.
4 Cfr.
Roberto Ciccarelli, Capitale
disumano. La vita in alternanza scuola-lavoro,
Roma, ed. Il Manifesto, 2018.
5 Cfr.
Roberto Maragliano, «Lei preferisce che un pilota d’aereo abbia
fatto videogiochi o che abbia letto la Divina Commedia?», in
“l’Unità”, 5 febbraio 1997.
6 A
sottolineare il primo aspetto, nei documenti di presentazione del
progetto “Futura Scuola 4.0” previsto dal Pnrr, si legge: «I
docenti come professionisti creativi del processo di apprendimento
possono favorire la motivazione e l’impegno attivo delle
studentesse e degli studenti, utilizzando modelli educativi
progettati a misura della loro inclinazione naturale verso il gioco,
la creatività, la collaborazione e la ricerca». Poco più avanti,
per quanto riguarda l’aspetto economico: «I Next Generation Labs
possono rappresentare una grande opportunità per ampliare l’offerta
formativa della scuola, adeguando e innovando i profili di uscita
alle nuove professioni ad alto uso di tecnologia digitale».
7 Cfr.
portale del MIUR: https://www.miur.gov.it/scuola-digitale,
ultima consultazione: 28 dicembre 2022.
8 Ivi,
p. 73.
9 Cfr.
Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Riforma
PNRR Tecnici e Professionali: Impresa, INVALSI, Competenze,
in
ROARS, https://www.roars.it/riforma-pnrr-tecnici-e-professionali-impresa-invalsi-competenze/,
ultima consultazione: 28 dicembre 2022.
10 Cfr.
MIUR: https://www.agendadigitale.eu/scuola-digitale/miur-rilancio-e-prossimi-passi-del-piano-scuola-digitale-insieme-al-paese/,
ultima consultazione: 28 dicembre 2022.
11 Roberto
Finelli, Filosofia e
Tecnologia. Una via d’uscita dalla mente digitale,
Torino, Rosemberg&Sellier, 2022. p. 15.
12 Facciamo
riferimento in particolare al progetto Futura.
Scuola 4.0.
Cfr. https://pnrr.istruzione.it/wp-content/uploads/2021/12/PNRR.pdf,
ultima consultazione: 28 dicembre 2022.
13 Mi
permetto di rimandare a un mio intervento: Didattica
digitale integrata: quale metodo?,
in https://www.casadellacultura.it/1151/didattica-digitale-integrata-quale-metodo-,
ultima consultazione: 28 dicembre 2022.